Il sacrificio di don Ivan

Il sacrificio di don Ivan
Travolto dalla sua chiesa per salvare una statua

Il parroco di Rovereto era entrato con i vigili del fuoco per recuperare delle immagini sacre

MICHELE BRAMBILLA – inviato a Rovereto sul Secchia (Mo)

Una statua della Madonna? O un’immagine di suo Figlio? Non sappiamo di preciso se l’una o l’altra cosa. Ma sappiamo che, da un punto di vista artistico, non valeva granché.

Eppure don Ivan Martini è morto per quella statua, o per quell’immagine. La Chiesa è fatta anche da uomini così.

Erano le nove e mezza di mattina quando don Ivan, 65 anni, parroco di Rovereto sul Secchia – una frazione di Novi di Modena -, è entrato nella sua chiesa per recuperare quel che era sacro, per lui e per i fedeli. Un sopralluogo concordato con i Vigili del fuoco. Concordato e programmato da tempo.

La chiesa era pericolante dopo il terremoto di dieci giorni fa. Don Ivan è entrato con i pompieri. Hanno cominciato a scappare insieme, quando sembrava suonassero le trombe dell’Apocalisse. Ma lui non ce l’ha fatta. Dicono che forse la veste si è impigliata da qualche parte.

«L’ho raccolto che ancora respirava», mi racconta Gino Galiotti, uno di quelli che frequenta la parrocchia. «Ma si capiva che non ce l’avrebbe fatta. Una trave lo aveva schiacciato. Non c’erano neanche ambulanze, l’ho portato io all’ospedale di Carpi per fare prima. È morto quasi subito. Che cosa vuole che le dica? Era qui da una decina d’anni e gli volevano tutti bene. Si occupava anche dei carcerati, insomma uno di quei preti degli ultimi».

Arrivo a Rovereto sul Secchia in tarda mattinata, giusto in tempo per prendere la seconda forte scossa, che per fortuna quando si va in macchina non si sente, e le altre due del pomeriggio, meno forti. La provinciale da Carpi a qui è una stradina di campagna, piena di casette tutte con il loro giardino e naturalmente il loro posto auto, ma oggi le auto sono tutte fuori, sul bordo della strada, pronte a partire.

Mentre i giardini sono popolati: la gente ha lasciato le stanze e si è trasferita lì, ombrelloni e sdraio come in spiaggia, qualcuno monta anche una tenda. È un trasloco di cui si conosce l’ora d’inizio ma non quella della fine.

Sulla strada incontro un uomo di Novi, Mauro Bellelli, che mi porta alla sua cascina di campagna, completamente crollata. «Anche casa mia è danneggiata», dice, «a Novi è un disastro». Il primo che incontro a Rovereto si chiama Nicola Matrone. Viene verso di me e racconta: «Ho perso tutto, la casa e tutto quello che c’era dentro». Rovereto ha quattromila abitanti e nessuno ha il permesso di dormire a casa sua. Alcune case sono crollate, altre hanno dentro crepe che sembrano fiumi su una carta geografica. Comunque nessuno si fida a stare dentro, anche chi non ha visto crepe. «Sembrava la fine del mondo», mi racconta Tiziana Pivani, che lavora per le Coop e ora sta dando una mano ai soccorsi.

La gente di Rovereto è tutta raggruppata su un grande prato che sta proprio dietro la chiesa crollata. È una tenda che don Ivan aveva fatto tirare su per dir messa in questi giorni seguiti al terremoto dell’altra domenica. Adesso è diventato il rifugio non solo dei peccatori, ma di tutte le anime del paese. Ci sono gli scout, ragazzi commoventi di cui si parla sempre troppo poco, che hanno messo giù le panche per mangiare.

Gino Galiotti, quello che ha tirato fuori il parroco dalle macerie, lo incontro proprio lì mentre mescola gli spaghetti al ragoût in un’enorme pentolone da accampamento militare. «Don Ivan era già d’accordo da giorni con i pompieri per andare a recuperare delle statue e dei quadri all’interno della chiesa», mi dice sua moglie, Rosanna Caffini: «Io ero a casa, lui mi ha telefonato: vieni con me? Io sono arrivata, l’ho visto che si metteva l’elmetto, e che entrava con i vigili del fuoco. Poi, l’apocalisse». Usa anche lei questo termine, «l’Apocalisse»: lo dicono un po’ tutti qui, oggi. Continua il racconto: «Ero nell’angolo del cortile quando ho sentito il boato. Che cosa dovevo fare? Sono scappata nel parcheggio. Ho visto un pezzo di campanile venire giù. Che cosa pensa una persona in quei momenti? Se ha un marito e una figlia, pensa al marito e alla figlia. Sono corsa a casa con il cuore in gola a vedere se erano vivi. Grazie al cielo stavano bene, e Gino è venuto subito qui a cercare di salvare don Ivan».

Camminare per il paese è come percorrere una via crucis. Vedi tante casette a un piano, massimo due, e i loro proprietari tutti fermi sull’uscio ad aspettare chissà che cosa. «Mi hanno detto che la mia casa è a posto», dice Marina Rettilieri, «ma io dormo in auto questa notte».

«Io ci dormirei anche», dice Pietro Ronchetti, «però non ci danno il permesso, dicono che stanno preparando delle tende. D’altra parte è vero che le scosse di oggi sono state tremende». Anche le case più nuove sono segnate, «a Rovereto non c’è nessuno che queste notti avrà il permesso di dormire in casa», dice Giancarlo Luppi. La sua è già stata dichiarata inagibile.

Che cosa si vede sulle facce della gente di questo piccolo paese improvvisamente finito, con altri quattro o cinque, in un girone dell’inferno? La paura è la cosa che traspare di più. Non è neanche più la paura per quello che è successo: è il terrore per quello che può ancora succedere.

Questa è la Bassa che ispira pace solo a guardarla, con le sue pianure sconfinate, i suoi casolari e le sue stalle, i suoi piccoli corsi d’acqua nei campi e lungo le strade, il suo silenzio, il suo caldo d’estate e le sue nebbie d’inverno. Ma chi potrà più sentirsi tranquillo domani, e tra un mese, e tra cinquant’anni quando i ragazzi di oggi saranno i nonni che racconteranno ai bambini del terremoto dell’anno dei Maya, e i bambini penseranno che è una favola?

Eppure. Eppure la paura non vincerà gli emiliani, gente abituata a saper prendere la vita. Si vedono in giro anche tanti sorrisi. Come quello di una giovane mamma che sotto la tenda dietro la chiesa imbocca il suo piccolino e gli dice: «È la prima pasta al ragoût della tua vita, chi avrebbe mai pensato che l’avresti mangiata in un giorno così».

La vita continua, in quella tenda. Sono le cose strane. Tutti stanno trovando rifugio in un’opera che era stata voluta e realizzata dall’unica persona del paese che ha perso la vita. E chissà, forse un cristiano ci vede il rinnovarsi di quello in cui crede, e cioè che c’è qualcuno che muore per la salvezza di tutti.

Dal sito web: LA STAMPA.it

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