«In Cina anche domani». Il nuovo inizio di papa Francesco

19/08/2014 

 

Chiesa cinese

 

(©Reuters)

(©REUTERS) CHIESA CINESE

Quale road map per la “questione cinese” suggeriscono i segnali sparsi nelle parole del Vescovo di Roma sul volo di ritorno dalla Corea

GIANNI VALENTE
ROMA

Papa Francesco ha pregato tanto per «il bello e nobile popolo cinese, un popolo saggio», mentre l’aereo che lo portava verso Seul stava attraversando il cielo sopra la Cina. Lo ha raccontato lui stesso nella conversazione avuta coi giornalisti sol volo che lo riportava a Roma, dopo le belle e intense giornate coreane, quando gli hanno domandato dei rapporti con la Cina e della sua disponibilità a visitare la Repubblica Popolare Cinese. Nelle brevi frasi di risposta, papa Francesco ha ribadito per ben tre volte la stima sua e della Santa Sede per il popolo cinese. E ha aggiunto dettagli che offrono preziose indicazioni su un possibile, sostanziale cambio di scenario e di passo nella sempre travagliata vicenda dei rapporti tra Pechino e Santa Sede e dei loro riflessi nella vita della Chiesa che è in Cina. 

Come prima cosa, il Vescovo di Roma ha detto di aver pregato per il popolo cinese. Papa Francesco guarda sempre ai fatti e ai problemi del mondo con lo sguardo proprio della fede. A Pechino, così come in Occidente, non si comprende fino in fondo ciò che Bergoglio fa e dice se non si tiene sempre in conto questo dato. È frutto di discernimento compiuto nella preghiera anche la dichiarata apertura e disponibilità al dialogo più volte riaffermata da papa Francesco nei confronti della Cina Popolare. Non si tratta di ingenua fiducia in volatili alchimie di tattica politico-diplomatica: anche durante l’incontro che ha avuto in Corea con settanta vescovi provenienti dall’Asia, papa Francesco ha detto che l’apertura e l’ascolto sono connaturali a chi vive l’esperienza cristiana. E il dialogo, «non solo politico ma anche fraterno», secondo l’approccio privilegiato da papa Francesco, è la via da imboccare anche per provare a sciogliere le pressioni e le oppressioni inflitte alle comunità cattoliche da parte di apparati del sistema cinese. Nasce dallo stesso sguardo di fede anche il realismo con cui si riconosce che proprio per provare ad affrontare e alleggerire i problemi occorre essere aperti al dialogo con il governo di Pechino, anche per verificare cosa pensa in merito il “nuovo” presidente Xi Jinping. Su questa linea di sguardo è sintonizzato anche il cardinale Pietro Parolin: «La Santa Sede» ha ripetuto l’attuale segretario di Stato vaticano in una recente intervista a Famiglia Cristiana parlando della Cina «è a favore di un dialogo rispettoso e costruttivo con le autorità civili per trovare la soluzione ai problemi che limitano il pieno esercizio della fede dei cattolici e per garantire il clima di un’autentica libertà religiosa».

Nelle sue parole sulla Cina rilasciate ieri ad alta quota, papa Francesco sì è anche detto pronto a volare a Pechino. «Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro, domani!», ha detto di slancio il Vescovo di Roma. Senza porre condizioni previe a tale eventualità. «Noi» ha subito aggiunto Bergoglio riguardo all’obiettivo del dialogo con le autorità cinesi «rispettiamo il popolo cinese. La Chiesa chiede soltanto la libertà per il suo mestiere, per il suo lavoro. Nessun’altra condizione». Già nel messaggio inviato da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2001 ai partecipanti al Convegno internazionale su Matteo Ricci, c’era scritto che «la Chiesa cattolica di oggi non chiede alla Cina e alle sue Autorità politiche nessun privilegio, ma unicamente di poter riprendere il dialogo, per giungere a una relazione intessuta di reciproco rispetto e di approfondita conoscenza». 

Il terzo, eloquente segnale contenuto nelle parole che il Papa ha dedicato alla Cina tornando da Seul è contenuto in un riferimento apparentemente scontato: «Non bisogna dimenticare» ha detto il Successore di Pietro «la lettera fondamentale per il problema cinese, quella che è stata inviata ai cinesi da Papa Benedetto XVI. Quella lettera oggi è attuale. Rileggerla fa bene». In quel testo del 2007, considerato tra i più rilevanti del magistero di Papa Ratzinger, tra le altre cose si ribadiva –riprendendo le parole del Concilio Vaticano II –  che la Chiesa «non si identifica in nessun modo con la comunità politica e non è legata a nessun sistema politico». Si ripeteva che «la Chiesa cattolica di oggi non chiede alla Cina e alle sue autorità politiche nessun privilegio», e anche che «la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini Cristo». Anche sul nodo controverso delle nomine dei vescovi, si insisteva sul fatto che quella dei successori degli apostoli è un’«autorità spirituale» che rimane «nell’ambito strettamente religioso. Non si tratta quindi di un’autorità politica, che si intromette indebitamente negli affari interni di uno Stato e ne lede la sovranità». Si mostrava comprensione perfino rispetto al fatto «che le autorità governative siano attente alla scelta di coloro che svolgeranno l’importante ruolo di guide e di pastori delle comunità cattoliche locali». Si auspicava addirittura «un accordo con il governo per risolvere alcune questioni riguardanti la scelta dei candidati all’episcopato». 

La lettera del 2007 viene riproposta oggi da papa Francesco anche come road map del possibile rilancio del dialogo con i nuovi leader di Pechino. Che tra l’altro hanno a portata di mano varie opportunità per dimostrare di aver recepito il messaggio forte e chiaro inviato dal Papa. Per esempio, mostrando un cambio di passo su due vicende che feriscono al presente i sentimenti delle comunità cristiane cinesi: il caso delle croci e delle chiese – quasi esclusivamente protestanti – abbattute su disposizione delle autorità locali nella provincia dello Zhejiang, e quello del giovane vescovo di Shanghai Thaddeus Ma Daquin, a cui viene impedito di esercitare il ministero episcopale fin dal giorno della sua elezione, quando lui aveva usato espressioni suonate come una complessiva presa di distanze dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (lo strumento con cui gli apparati cinesi pretendono di guidare la Chiesa “dall’interno”). Lo scorso giugno sono scaduti i due anni di sospensione dal pubblico esercizio del sacerdozio con cui il Collegio dei vescovi cinesi (organismo orientato dal potere civile e non riconosciuto dalla Santa Sede) aveva “punito” il vescovo Ma. E adesso è venuto il tempo di trovare soluzioni ragionevoli per por fine alle sue vicissitudini.

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