La Settimana Santa 2013 – Il Venerdì Santo (mattino) – alla luce delle rivelazioni a Maria Valtorta

A cura di Giovanna Busolini

 VENERDÌ SANTO (mattino)

 

(Sottolineature e grassetti sono i miei. Immagini tratte dal WEB e dal libro originale di Maria Valtorta)

Maria Valtorta, L'Evangelo come mi è stato rivelato, 604, ed. CEV.

Poema: IX, 22 

I processi e il rinnegamento di Pietro.

Considerazioni su Pilato.

22-25 marzo 1945.

1Incomincia il doloroso cammino per la stradetta sassosa che conduce dalla piazzetta dove Gesù fu catturato al Cedron e da questo, per altra stradetta, alla città. E subito incominciano i lazzi e le sevizie.

Gesù, legato come è ai polsi e persino alla cintura come fosse un pazzo pericoloso, con i capi delle funi affidati a degli energumeni briachi di odio, è stiracchiato qua e là come un cencio abbandonato all'ira di una torma di cuccioli. Ma, fossero cani coloro che così agiscono, sarebbero ancora scusabili. Invece hanno nome di uomini, sebbene dell'uomo non abbiano altro che l'aspetto. Ed è per dare maggior dolore che hanno pensato a quella legatura di due funi opposte, di cui una si occupa soltanto di imprigionare i polsi, e li sgraffia e sega col suo ruvido attrito, e l'altra, quella della cintura, comprime i gomiti contro il torace, e sega e opprime l'alto dell'addome, torturando il fegato e le reni, dove è fatto un enorme nodo e dove, ogni tanto, chi tiene i capi delle funi dà, con gli stessi, delle sferzate dicendo: «Arri! Via! Trotta, somaro!», e unisce anche dei calci, menati al dietro dei ginocchi del Torturato, che ne barcolla e non cade del tutto solo perché le funi lo tengono in piedi. Ma non evitano però che, stiracchiato verso destra da quello che si occupa delle mani e verso sinistra da quello che tiene la fune della cintura, Gesù vada ad urtare contro muretti e tronchi, e cada duramente contro la spalletta del ponticello per un più crudele strattone, ricevuto quando sta per valicare il ponticello sul Cedron. La bocca contusa sanguina. Gesù alza le mani legate per tergersi il sangue che brutta la barba, e non parla. È veramente l'agnello che non morde chi lo tortura.

Della gente è scesa intanto a prendere selci e ciottoli nel greto, e dal basso inizia una sassaiola sul facile bersaglio. Perché l'andare è stentato sul ponticello stretto e insicuro, su cui la gente si accalca facendo ostacolo a se stessa, e le pietre colpiscono Gesù sul capo, sulle spalle, e non Gesù solo. Ma anche i suoi aguzzini, che reagiscono lanciando bastoni e le stesse pietre. E tutto serve per colpire di nuovo Gesù sul capo e sul collo. Ma il ponte ha ben fine, ed ora la viuzza stretta getta ombre sulla mischia, perché la luna, che inizia il tramonto, non scende in quel vicolo contorto, e molte torce nel parapiglia si sono spente.

Ma l'odio fa da lume per vedere il povero Martire, al quale fa da torturatrice anche la sua alta statura. È il più alto di tutti. Facile quindi il percuoterlo, l'acciuffarlo per i capelli obbligandolo a rovesciare violentemente indietro il capo, sul quale viene lanciata una manata di immonda materia, che gli deve per forza andare in bocca e negli occhi dando nausea e dolore.

2Si inizia la traversata del sobborgo di Ofel, del sobborgo in cui tanto bene e tante carezze Egli ha sparso. La turba vociante richiama i dormenti sulle soglie, e se le donne hanno gridi di dolore e fuggono terrorizzate vedendo l'avvenuto, gli uomini, gli uomini che pure da Lui hanno avuto guarigioni, soccorsi, parole d'Amico, o chinano il capo rimanendo indifferenti, affettando noncuranza per lo meno, o passano dalla curiosità all'astio, al ghigno, all'atto di minaccia, e anche si accodano al corteo per seviziare. Satana è già all'opera…

Un uomo, un marito che vuole seguirlo per offenderlo, viene abbrancato dalla moglie urlante che gli grida: «Vigliacco! Se sei vivo è per Lui, lurido uomo pieno di marciume. Ricordalo!». Ma la donna viene sopraffatta dall'uomo, che la picchia bestialmente gettandola al suolo e che poi corre a raggiungere il Martire, sulla cui testa scaglia un sasso.

Un'altra donna, vecchia, cerca di sbarrare la strada al figlio, che accorre con un volto di iena e con un bastone per colpire lui pure, e gli grida: «Assassino del tuo Salvatore tu non sarai finché io vivo!». Ma la misera, colpita dal figlio con un calcio brutale all'inguine, stramazza gridando: «Deicida e matricida! Per il seno che squarci una seconda volta e per il Messia che ferisci, che tu sia maledetto!».

3La scena aumenta sempre più in violenza man mano che ci si avvicina alla città.

Prima di giungere alle mura -e già sono aperte le porte, ed i soldati romani con le armi al piede osservano dove e come si svolge il tumulto, pronti ad intervenire se il prestigio di Roma ne fosse leso- vi è Giovanni con Pietro. Io credo che siano giunti lì da una scorciatoia presa valicando il Cedron più su del ponte e precedendo velocemente la turba, che va lenta, tanto da sé si ostacola. Stanno nella penombra di un androne, presso una piazzetta che precede le mura. E hanno sul capo i mantelli a far velo al volto. Ma, quando Gesù giunge, Giovanni lascia cadere il suo mantello e mostra la sua faccia pallida e sconvolta al libero chiarore della luna, che lì ancora fa lume prima di scomparire dietro il colle, che è oltre le mura e che sento designare come Tofet dagli sgherri catturatori. Pietro non osa scoprirsi. Ma però viene avanti per essere visto…

Gesù li guarda… ed ha un sorriso di una bontà infinita. Pietro gira su se stesso e torna nel suo angolo buio, con le mani sugli occhi, curvo, invecchiato, già un cencio d'uomo. Giovanni resta coraggiosamente dove è, e solo quando la turba vociante è passata raggiunge Pietro, lo prende per un gomito, lo guida come fosse un ragazzo che guida il padre cieco, ed entrano ambedue in città dietro alla folla schiamazzante.

Sento le esclamazioni stupite, derisorie, addolorate dei soldati romani. Chi fra essi maledice per essere stato levato dal letto per quel «pecorone stolto»; chi deride i giudei capaci di «prendere una mezza femmina»; chi compassiona la Vittima che «ha sempre visto buona»; e chi dice: «Preferirei mi avessero ucciso che vedere Lui in quelle mani. È un grande. La mia devozione è per due nel mondo: Egli e Roma».

«Per Giove!», esclama il più alto in grado. «Io non voglio noie. Ora vado dall'alfiere. Pensi lui a dirlo a chi deve. Non voglio essere mandato a combattere i Germani. Questi ebrei puzzano e sono serpi e rogne. Ma qui è sicura la vita. Ed io sto per finire il tempo, e presso Pompei ho una fanciulla!…».

4Perdo il resto per seguire Gesù, che procede per la via che fa un arco in salita per andare al Tempio. Ma vedo e comprendo che la casa di Anna, dove lo vogliono portare, è e non è in quel labirintico agglomerato che è il Tempio e che occupa tutto il colle di Sion. Essa ne è agli estremi, presso una serie di muraglioni, che paiono delimitare qui la città e da questo luogo si estendono con portici e cortili per il fianco del monte sino a giungere nel recinto del Tempio vero e proprio, ossia di quello in cui vanno gli israeliti per le loro diverse manifestazioni di culto.

Un alto portone ferrato si apre nella muraglia. A questo accorrono delle iene volonterose e bussano forte. E non appena si apre uno spiraglio irrompono dentro, quasi atterrando e calpestando la serva venuta ad aprire, e lo spalancano tutto perché la turba vociante, con il Catturato al centro, possa entrare. Ed entrata che è, ecco che chiudono e sprangano, paurosi forse di Roma o dei partigiani del Nazareno.

I suoi partigiani! Dove sono?…

Percorrono l'atrio di ingresso e poi traversano un ampio cortile, un corridoio, e un altro portico e un nuovo cortile, e trascinano Gesù su per tre scalini, facendogli percorrere quasi di corsa un porticato sopraelevato sul cortile per giungere più presto ad una ricca sala, dove è un uomo anziano vestito da sacerdote.

«Dio ti consoli, Anna», dice colui che pare l'ufficiale, se ufficiale può chiamarsi il manigoldo che ha comandato quei briganti. «Eccoti il colpevole. Alla tua santità l'affido perché Israele sia mondato dalla colpa».

«Dio ti benedica per la tua sagacia e la tua fede».

Bella sagacia! Era bastata la voce di Gesù a farli cadere per terra al Getsemani.

5«Chi sei Tu?».

«Gesù di Nazaret, il Rabbi, il Cristo. E tu mi conosci. Non ho agito nelle tenebre».

«Nelle tenebre, no. Ma hai traviato le folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere di tutelare l'anima dei figli di Abramo».

«L'anima! Sacerdote di Israele, puoi dire che per l'anima del più piccolo o del più grande di questo popolo tu hai sofferto?».

«E Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?».

«Che ho fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla città santa al più misero borgo anche le pietre parlano per dire quanto ho fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore. Ho aperto l'udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché iniziassero la marcia verso Dio dalla carne e poi procedessero con lo spirito. Ho mondato i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho risuscitato i morti, né dico che grande è il richiamare alla vita una carne, ma grande è redimere un peccatore, e l'ho fatto. Ho soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto santo dell'amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il rio d'oro che mi passò fra le mani, ho asciugato più lacrime Io solo che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del Padre uguale è il pianto o il delitto, sia che siano fatti o versati dal Tetrarca e dal Pontefice, o dal mendicante e dal lebbroso che muore sulla carraia. Questo ho fatto. Nulla più».

6«Sai che da Te stesso ti accusi? Tu dici: le lebbre che rendono infetti a Dio e non sono segnalate da Mosè. Tu insulti Mosè e insinui che vi sono lacune nella sua Legge…».

«Non sua: di Dio. Così è. Più della lebbra, sventura della carne e che ha un termine, Io dico grave, e tale è, la colpa che è sventura ed eterna dello spirito».

«Tu osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?».

«Se con un poco di acqua lustrale e il sacrificio di un ariete è lecito e credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne mondati, come non lo potrà il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?».

«Ma Tu non sei morto. Dove è allora il Sangue?».

«Non sono ancora morto. Ma lo sarò perché è scritto. In Cielo da quando Sionne non era, da quando non era Mosè, da quando non era Giacobbe, da quando non era Abramo, da quando il re del Male morse al cuore l'uomo e lo avvelenò in lui e nei suoi figli. È scritto in Terra nel Libro in cui sono le voci dei profeti. È scritto nei cuori. Nel tuo, in quello di Caifa e dei sinedristi che non mi perdonano, no, questi cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando sul Sangue. Ora compio l'assoluzione col lavacro in esso».

«Tu ci dici avidi e ignoranti del precetto d'amore…».

«E non è forse vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi. Oh! non temete. Il mio Regno non è di questo mondo. Vi lascio padroni di ogni potere. L'Eterno sa quando dire il "Basta" che vi farà cadere fulminati…».

«Come Doras, eh?».

«Egli morì d'ira. Non per fulmine celeste. Dio lo attendeva dall'altra parte per fulminarlo».

«E lo ripeti a me? Suo parente? Osi?».

«Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile».

«Superbo e folle!».

«No: sincero. Mi accusi di farvi offesa. Ma non odiate forse voi tutti? L'un coll'altro vi odiate. Ora l'odio per Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l'odio fra voi, e più fiero, e vivrete con questa iena alle spalle e questo serpente nel cuore. Io ho insegnato l'amore. Per pietà del mondo. Ho insegnato ad essere non avidi, ad avere misericordia. 7Di che mi accusi?».

«Di avere messo una dottrina nuova».

«O sacerdote! Israele pullula di nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i farisei la loro; ognuno ha la sua segreta, che per uno ha nome piacere, per l'altro oro, per l'altro potere; e ognuno ha il suo idolo. Non Io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni del Decalogo, asciugandomi i polmoni per farle entrare nei cuori che non le conoscevano più».

«Orrore! Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele? Siamo come i percossi di Babilonia? Rispondi».

«Questo siete. E più ancora. Vi è un Tempio. Sì. Un edificio. Dio non c'è. È fuggito davanti all'abominio che è nella sua casa. Ma a che mi interroghi tanto, se tanto è decisa la mia morte?».

«Non siamo assassini. Uccidiamo se ne abbiamo il diritto per colpa provata. 8Ma io ti voglio salvare. Dimmi, e ti salverò. Dove sono i tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di tutti, e più gli occulti che i palesi. Di': Nicodemo è tuo? E' tuo Giuseppe? E Gamaliele? E Eleazaro? E… Ma di questo lo so… Non occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono potente».

«Sei fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce».

Uno sgherro gli sferra un pugno.

«Io sono Luce. Luce e Verità. Ho parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò che Io ho detto. Essi lo sanno».

Un altro sgherro gli lascia andare un ceffone urlando: «Così rispondi al Sommo Sacerdote?».

«Ad Anna Io parlo. Il Pontefice è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se no, perché mi percuoti?».

«Lascialo fare. 9Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate che non parli con nessuno». Anna esce.

Non parla, no, Gesù. Neppure con Giovanni, che osa stare sulla porta sfidando tutta la plebe sgherrana. Ma Gesù, senza parole, gli deve dare un comando, perché Giovanni, dopo uno sguardo accorato, esce di lì e lo perdo di vista.

Gesù resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, lazzi, calci, stiracchiate ai capelli, sono quanto gli resta. Finché un servo viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa.

 (segue in allegato)

 Maria Valtorta – L'Evangelo – Venerdì Santo (mattino)

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