L’ateismo ci lascia con il terrore della morte

 27-11-2013

di Massimo Introvigne

 

 

L'Anno della fede si è concluso il 24 novembre 2013, ma all'udienza generale del 27 novembre Papa Francesco ha avvertito che le relative catechesi del mercoledì, iniziate da Benedetto XVI, continueranno fino alla fine dell'esposizione del Credo. In questa catechesi il Papa ha iniziato a commentare la formula «Aspetto la resurrezione dei morti». Come sempre, Francesco rimanda al «Catechismo della Chiesa Cattolica», che divide il commento alla formula in due parti: morire in Gesù Cristo – trattata nell'udienza di questa settimana – e risorgere in Gesù Cristo, che sarà oggetto della prossima catechesi.

L'udienza è partita dal «modo sbagliato di guardare la morte». La morte ci sconvolge soprattutto «quando colpisce i piccoli, gli indifesi in una maniera che ci risulta “scandalosa”. A me sempre ha colpito la domanda: perché soffrono i bambini? Perché muoiono i bambini?». Ma la risposta non può essere puramente affettiva. Rimanda alle verità fondamentali sulle origini e il destino.

«Se viene intesa come la fine di tutto, la morte spaventa, atterrisce, si trasforma in minaccia che infrange ogni sogno, ogni prospettiva, che spezza ogni relazione e interrompe ogni cammino». Il problema è dunque l'ateismo teorico e pratico, radice del terrore della morte. Questo terrore ci assale «quando consideriamo la nostra vita come un tempo rinchiuso tra due poli: la nascita e la morte; quando non crediamo in un orizzonte che va oltre quello della vita presente; quando si vive come se Dio non esistesse». Questa visione «è tipica del pensiero ateo, che interpreta l’esistenza come un trovarsi casualmente nel mondo e un camminare verso il nulla. Ma esiste anche un ateismo pratico, che è un vivere solo per i propri interessi e vivere solo per le cose terrene». Se per ateismo teorico o pratico adottiamo «questa visione sbagliata della morte, non abbiamo altra scelta che quella di occultare la morte, di negarla, o di banalizzarla, perché non ci faccia paura».

Ma qualcosa ci dice che le cose non possono stare veramente così: «si ribella il “cuore” dell’uomo, il desiderio che tutti noi abbiamo di infinito, la nostalgia che tutti noi abbiamo dell’eterno». Se ricordiamo la morte delle persone care, «ci accorgiamo che, anche nel dramma della perdita, anche lacerati dal distacco, sale dal cuore la convinzione che non può essere tutto finito, che il bene dato e ricevuto non è stato inutile. C’è un istinto potente dentro di noi, che ci dice che la nostra vita non finisce con la morte».

Il cristianesimo dà la risposta «reale e affidabile» a questa domanda. «La risurrezione di Gesù non dà soltanto la certezza della vita oltre la morte, ma illumina anche il mistero stesso della morte di ciascuno di noi». Dobbiamo però anche osservare che «una persona tende a morire come è vissuta». Se ho camminato con il Signore, allora «sarò preparato ad accettare il momento ultimo della mia esistenza terrena come il definitivo abbandono confidente nelle sue mani accoglienti, in attesa di contemplare faccia a faccia il suo volto», che è poi «la cosa più bella che può accaderci»: «vedere il Signore».

Il cristiano tiene sempre presente «l’invito di Gesù ad essere sempre pronti, vigilanti, sapendo che la vita in questo mondo ci è data anche per preparare l’altra vita, quella con il Padre celeste». Come si fa? Sappiamo che «c’è una via sicura: prepararsi bene alla morte, stando vicino a Gesù». Ma come si riesce a stare vicino a Gesù? «Con la preghiera, nei Sacramenti e anche nella pratica della carità. Ricordiamo che Lui è presente nei più deboli e bisognosi». Proprio parlando del giudizio finale Gesù afferma: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. …Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-36.40). Oltre alla preghiera, un modo sicuro per prepararci alla morte è dunque «prenderci cura delle piaghe corporali e spirituali del nostro prossimo. La solidarietà nel compatire il dolore e infondere speranza è premessa e condizione per ricevere in eredità quel Regno preparato per noi. Chi pratica la misericordia non teme la morte», perché «la supera con l’amore di Gesù Cristo».

Se la prepariamo bene con la nostra vita, «la nostra morte diventerà una porta che ci introdurrà al cielo, alla patria beata, verso cui siamo diretti, anelando di dimorare per sempre con il nostro Padre, Dio, con Gesù, con la Madonna e con i santi».

 

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