Lo sguardo di Francesco sul conflitto in Iraq

19/08/2014 
Soldato in Iraq

(©Afp)

(©AFP) SOLDATO IN IRAQ

Il Papa ricorda il Catechismo sul fatto che è lecito fermare l'aggressore, ma non avalla i bombardamenti americani. Ricorda quali sono state le conseguenze delle recenti guerre mosse dall'Occidente nell'area e valorizza il ruolo delle Nazioni Unite

ANDREA TORNIELLI
CITTÀ DEL VATICANO

«Oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: lei sa, padre, che siamo nella terza guerra mondiale, ma fatta a pezzi, a capitoli». Le parole di Francesco sulla guerra, e sulle bombe che uccidono il colpevole e l'innocente, ammazzando donne e bambini, più che paventare un nuovo imminente conflitto mondiale, descrivono una triste realtà.

Ed è proprio per questo, che con realismo, di fronte alla tragedia irakena, ai fondamentalisti dell'Isis che massacrano le minoranze religiose, Bergoglio, nel ribadire la posizione classica contenuta nel Catechismo, e cioè la necessità di fermare l'ingiusta aggressione, ha chiaramente specificato che «fermare» non equivale a «bombardare». Aggiungendo inoltre che, al contrario di quanto sta accadendo, deve essere la comunità internazionale e non una singola nazione a decidere come e quando intervenire.

La situazione è drammatica, bisogna fermare le violenze. Ma non si deve dimenticare ciò che è accaduto proprio in quest'area con le precedenti «guerre giuste» combattute per «esportare» la democrazia o eliminare armi di distruzione di massa mai ritrovate. Nel 2003 Giovanni Paolo II gridò con tutta la voce che ancora aveva in corpo supplicando di non iniziare la guerra in Iraq. Oggi non si tratta di fare una nuova guerra, ma di fermare i massacri: una situazione dunque più simile a quella del Kosovo alla fine degli anni Novanta. Allora Papa Wojtyla e la Santa Sede auspicarono un intervento sotto l'egida Onu, con una forza di interposizione di pace, per fermare la pulizia etnica. Si decise per l'intervento Nato, a suon di «bombe intelligenti», che poi così intelligenti non sono mai. Questo spiega perché, seppur di fronte a una situazione drammatica e all'urgenza di un intervento giudicato lecito per mettere un freno alle violenze, Francesco chieda un sussulto di coscienza alla comunità internazionale invece di avvallare semplicemente l'iniziativa americana.

Non deve infine sfuggire, nelle parole del Papa, questa sottolineatura: ad essere oggetto di violenze sono diverse minoranze religiose, non solo quella cristiana. Certo, i seguaci di Gesù rischiano di scomparire in quei luoghi dove sono presenti ormai da due millenni. Ma non si deve dimenticare che l'Isis ha ucciso anche musulmani sciiti, oltre che perseguitato altri gruppi religiosi, come gli yazidi.

Presentare ciò che sta accadendo come la resa dei conti tra cristianesimo e islam, invocando nuove crociate è una semplificazione che finisce per strumentalizzare ideologicamente persino il martirio. E che rischia di complicare ancor di più la situazione che vorrebbe risolvere, identificando con l'Occidente quei cristiani da venti secoli cittadini dei Paesi del Medio Oriente.

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