Il Papa: “Roma vuole solo presiedere nella carità”

 01-12-2014 

di Massimo Introvigne

 

Con la terza e ultima giornata di viaggio in Turchia, domenica 30 novembre 2014 Papa Francesco ha messo al centro il motivo principale per cui ha intrapreso la visita pastorale: fare un passo in avanti, auspicabilmente decisivo, nel cammino della piena riconciliazione con le Chiese ortodosse, o almeno – e più realisticamente – con una parte di esse.

Il Papa ha partecipato alla Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio a Istanbul nel giorno della festa di sant’Andrea, patrono del Patriarcato Ecumenico. E ha indicato senza mezzi termini l’obiettivo: «il ristabilimento della piena comunione» fra cattolici e ortodossi. Ma come procedere, perché il sogno diventi realtà? Il Pontefice ha indicato quattro dimensioni dell’ecumenismo: i gesti, la teologia, la cultura e il martirio.

Francesco ha rivendicato anzitutto l’importanza dei gesti, perché il dialogo «è sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee». Sant’Andrea, così importante per gli ortodossi, ne fornisce un esempio eloquente. Egli, «dopo avere seguito Gesù là dove abitava ed essersi intrattenuto con Lui, “incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia’ – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù». Abbracciando a Gerusalemme cinquant’anni fa il patriarca Atenagora, il beato Paolo VI inaugurò questo ecumenismo dei gesti simbolici, che Francesco ha continuato sabato quando si è inchinato di fronte al successore di Atenagora, Bartolomeo, e ha chiesto la sua benedizione.

L’ecumenismo dei gesti è legittimo e utile, ma non basta. Come insegna il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui pure ricorre il cinquantenario, per condurre a risultati il dialogo deve procedere anche sul piano teologico. L’ecumenismo dei gesti favorisce l’ecumenismo teologico, ma non lo sostituisce. Il decreto Unitatis redintegratio ricordava quello che per i cattolici è ovvio, cioè che le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli».

Ma il Pontefice ha voluto sottolineare un altro aspetto, pure presente nel decreto conciliare: «per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani di Oriente e Occidente è di somma importanza conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio delle Chiese d’Oriente, non solo per quello che riguarda le tradizioni liturgiche e spirituali, ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese». Dunque «ristabilimento della piena comunione» non significa negazione dell’identità specifica delle Chiese ortodosse orientali, «non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo». Il Papa assicura che «per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e della esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse». 

Si tratta di un passaggio importante. Roma non vuole assorbire le Chiese ortodosse né uniformarle a sé, ma nello stesso tempo richiede agli ortodossi di riconoscere che la Chiesa di Roma e il suo vescovo per mandato divino «presiedono nella carità» rispetto a tutte le altre Chiese. Le parole di Papa Francesco sono molto forti, ma hanno una storia. Dopo il decreto «Unitatis redintegratio» è venuta l’enciclica del 1995 di san Giovanni Paolo II «Ut unum sint» dove Papa Wojtyla dichiarava di sentirsi impegnato a «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Sono parole ricordate più volte da Papa Francesco, il quale nel discorso di Istanbul ha parafrasato anche una formula cara a Benedetto XVI, secondo cui in tema di primato del Vescovo di Roma agli ortodossi non si deve chiedere nulla di più – e anche nulla di meno – di quanto le Chiese orientali accettavano nel primo millennio, prima della separazione.

Papa Francesco ha voluto ricordare altre due dimensioni del cammino di riconciliazione, quella culturale e quella del sangue. «Nel mondo d‘oggi – ha detto – si levano con forza voci che non possiamo non sentire» e che chiedono alle Chiese cristiane di essere unite. La prima voce è quella dei poveri, che soffrono per «l’aumento dell’esclusione sociale, che può indurre ad attività criminali e perfino al reclutamento dei terroristi» e nei confronti dei quali il solo «aiuto materiale», per quanto necessario, non è sufficiente. «Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana». Ricordando il brutale attentato che ha colpito una moschea a Kano, in Nigeria, il Pontefice ha affermato che «turbare la pace di un popolo, commettere o consentire ogni genere di violenza, specialmente su persone deboli e indifese, è un peccato gravissimo contro Dio, perché significa non rispettare l’immagine di Dio che è nell’uomo». Dunque, anche «la voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra i cattolici ed ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il Vangelo di pace che viene dal Cristo, se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese?». La terza voce è quella dei giovani «che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione. Molti giovani, poi, influenzati dalla cultura dominante, cercano la gioia soltanto nel possedere beni materiali e nel soddisfare le emozioni del momento». Nello stesso tempo, ci sono molti giovani cattolici e ortodossi «che oggi ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione».

La quarta dimensione dell’ecumenismo, che Papa Francesco ha più volte ricordato, è quella del sangue e della comune «testimonianza del martirio», che cattolici e ortodossi offrono insieme in molte parti del mondo e particolarmente in Medio Oriente. Nella dichiarazione congiunta che ha concluso il loro incontro, il Pontefice e il Patriarca si appellano «a tutti coloro che hanno la responsabilità del destino dei popoli affinché intensifichino il loro impegno per le comunità che soffrono e consentano loro, comprese quelle cristiane, di rimanere nella loro terra natia. Non possiamo rassegnarci a un Medio Oriente senza i cristiani, che lì hanno professato il nome di Gesù per duemila anni». «Molti nostri fratelli e sorelle – constata la dichiarazione – sono perseguitati e sono stati costretti con la violenza a lasciare le loro case. Sembra addirittura che si sia perduto il valore della vita umana e che la persona umana non abbia più importanza e possa essere sacrificata ad altri interessi. E tutto questo, tragicamente, incontra l’indifferenza di molti». All’indifferenza il Pontefice ha voluto rispondere anche incontrando, prima di lasciare la Turchia, un centinaio di bambini e giovani profughi dall’Iraq e dalla Siria, cristiani e musulmani, assistiti dai salesiani e dalla Caritas, di fronte ai quali ha chiesto maggiore «convergenza internazionale» rispetto a situazioni «intollerabili» dal punto di vista umanitario e dei diritti umani.

In Medio Oriente e altrove, continua la dichiarazione congiunta del Papa e del Patriarca, «c’è anche un ecumenismo della sofferenza. Come il sangue dei martiri è stato seme di forza e di fertilità per la Chiesa, così anche la condivisione delle sofferenze quotidiane può essere uno strumento efficace di unità». Anche la proposta di un «dialogo costruttivo con l’islam» e l’appello rivolto in Ucraina «alle parti coinvolte nel conflitto a ricercare il cammino del dialogo e del rispetto del diritto internazionale» appariranno più credibili se saranno accompagnati da segni di progresso nel cammino dell’unità fra cattolici e ortodossi.

Il Papa sa bene che, proprio ora che la meta della riconciliazione fra cattolici e ortodossi appare più vicina, si manifestano ostacoli e resistenze. Nello scorso mese di settembre si è svolta ad Amman, in Giordania, la tredicesima sessione del dialogo ecumenico fra cattolici e ortodossi, sul tema della sinodalità e del primato di Pietro. Non è un mistero, per chiunque abbia seguito quei lavori, che gli ortodossi hanno spesso litigato tra loro e che anche fra i cattolici orientali si sono manifestati conflitti e resistenze. Papa Francesco aveva in mente tutto questo quando sabato ha criticato i cristiani che resistono allo Spirito Santo e sembrano avere paura di compiere passi decisivi e coraggiosi nel cammino verso l’unità fra cattolici e ortodossi. Nonostante gli sforzi di Papa Francesco – e l’uso più frequente, fin dall’inizio del pontificato, dell’espressione «vescovo di Roma», più gradita alle Chiese ortodosse, rispetto a «Papa» o «Pontefice» – la riconciliazione con tutti gli ortodossi sembra ancora un obiettivo lontano e difficile. Ma la riconciliazione con alcuni ortodossi è possibile. E il Papa spera che questo viaggio in Turchia sarà in futuro ricordato come un momento decisivo del cammino.

Caro Giordano, ma che Papa hai visto? di Luigi Santambrogio

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