Sudan, condannata a morte per apostasia, Meriam partorisce in carcere

27/05/2014 

 

Meriam Ibrahim con suo marito il giorno delle nozze

MERIAM IBRAHIM IL GIORNO DELLE NOZZE

Lo riferisce The Telegraph. La donna stava già vivendo in cella con l’altro suo figlio, che ha meno di 2 anni

DOMENICO AGASSO JR
TORINO

 

La donna Sudanese che mentre era incinta di otto mesi era stata condannata a morte per avere rifiutato di rinunciare al cristianesimo, ha dato alla luce una bambina. Lo hanno comunicato i suoi avvocati a The Telegraph.

 

La 27enne Meriam Ibrahim, già madre di un bimbo, ha partorito questa notte in prigione, non essendo stata concessa l’autorizzazione per il trasferimento in ospedale.

Suo figlio Martin, che ha meno di 2 anni, stava già vivendo con lei dentro la cella.

Ibrahim era stata arrestata a febbraio e poi è stata mandata a morte – per impiccagione – alcune settimane fa perché avrebbe rinnegato la fede musulmana. Un giudice ha deciso di punire così la sua apostasia: Meriam avrebbe abbandonato la fede, in quanto il padre era musulmano, e il magistrato l'ha anche condannata a cento frustate per adulterio perché sposata con un cristiano in un matrimonio che non è considerato valido dalla “sharia”.

Il giudice le aveva chiesto di rinunciare alla sua fede: «Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all'Islam. Ti condanno a morte per impiccagione», aveva detto Abbas Mohammed Al-Khalifa rivolgendosi alla donna con il suo nome musulmano, Adraf Al-Hadi Mohammed Abdullah. La giovane ha reagito senza tradire l'emozione quando la sentenza è stata letta. Poco prima, un imam era entrato nella “gabbia” degli imputati e le aveva parlato per circa trenta minuti. Al termine, Meriam si è rivolta al giudice e con calma ha detto: «Sono cristiana e mai ho commesso apostasia».

Secondo quanto ricostruito da un gruppo a tutela dei diritti umani, Christian Solidarity Worldwide, la donna è nata da padre sudanese musulmano e da madre etiope ortodossa. Abbandonata dal padre quando aveva 6 anni, Meriam è stata cresciuta nella fede cristiana. Ma poiché il padre è musulmano, è considerata tale dal diritto sudanese, il che rende nullo il matrimonio con chi non è musulmano.

Il marito Daniel Wani la scorsa settimana ha denunciato le precarie condizioni di salute della donna, tenuta incatenta, nonostante la gravidanza.

Per la legge Meriam Hibrahim potrà allattare per due anni, prima che la sentenza venga eseguita.

Amnesty International ha definito «ripugnante» che una donna possa essere condannata a morte per la sua fede religiosa, o frustata perché sposata con un uomo di religione diversa.

A difesa di Meriam, in attesa della sentenza, sono scese in campo alcune ambasciate occidentali a Khartum. «Chiediamo al governo del Sudan», si legge in un comunicato diffuso dalle rappresentanze di Usa, Gran Bretagna, Canada e Olanda, «di rispettare il diritto di libertà di religione, compreso il diritto di ciascuno di cambiare la propria fede o le proprie credenze, un diritto che è sancito dal Diritto internazionale e dalla stessa Costituzione “ad interim” sudanese del 2005».

Comunque si spera ancora nella revisione del processo in quanto «il giudice locale ha applicato la sharia senza aver tenuto conto delle leggi nazionali», ha riferito Antonella Napoli, presidente dell’associazione “Italians for Darfour”, che da anni si occupa dei diritti umani nei paesi africani, e che nel frattempo ha fatto pervenire all’ambasciata del Sudan oltre 25mila firme per la liberazione di Meriam Ibrahim. «È nata la bimba di Meriam, la donna cristiana condannata a morte in Sudan per apostasia. Stanno bene entrambe. Purtroppo non hanno potuto lasciare la prigione a Khartoum», ha scritto su Twitter Napoli; ma la nascita della piccola, aggiunge Napoli, «è speranza».

Meriam «avrà un nuovo processo» che esclude la pena di morte, hanno assicurato alcuni avvocati interpellati da Khalid Omer Yousif della Ong Sudan Change Now.

Giovedì i legali di Meriam Ibrahim hanno depositato un ricorso presso la Corte d'Appello di Bahri e Sharq Al Nil; se sarà infruttuoso, stanno progettando di provare a portare il caso alla Corte suprema e alla Corte costituzionale del Sudan.

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