Teologia. Come difendersi dalle contraffazioni

 

di Sandro Magister

ROMA, 14 dicembre 2012 – La scorsa settimana, nella sua annuale sessione plenaria, la commissione teologica internazionale ha compiuto un gesto fuori dal comune.

Il 6 dicembre i trenta teologi che la compongono, con il loro presidente Gerhard L. Müller, cardinale prefetto della congregazione per la dottrina della fede, si sono recati in pellegrinaggio alla basilica papale di Santa Maria Maggiore.

La commissione aveva annunciato e spiegato il senso di questo gesto in un suo precedente messaggio diffuso a metà ottobre:

“Affidare il proprio lavoro, e quello di tutti teologi cattolici, alla Vergine fedele, proclamata ‘beata perché ha creduto’ (Lc 1, 45), modello dei credenti e baluardo della vera fede”.

Ma anche il tema centrale del messaggio  – “la teologia non esiste che in relazione al dono della fede” – era fuori dal comune:

Fuori dal comune perché la moda corrente – esterna alla Chiesa ma presente anche al suo interno – attribuisce alla teologia e alla qualifica di teologo un significato slegato dalla fede, di sola conoscenza “scientifica” della religione.

È una moda, questa, che non riconosce alla teologia uno statuto accademico e tende ad espellerla dalle università, sostituendovi discipline di scienze religiose. Una moda contro la quale Benedetto XVI si batte instancabilmente, fin dalla memorabile lezione da lui tenuta il 12 settembre 2005 nell’università di Ratisbona.

Il 7 dicembre, infatti, festa di sant’Ambrogio, nel ricevere i teologi della commissione, papa Joseph Ratzinger non ha perso l’occasione per ribadire quello che egli ritiene il “codice genetico della teologia cattolica, cioè i principi che definiscono la sua stessa identità”.

È la medesima questione capitale a cui la commissione teologica internazionale ha dedicato l’ultimo suo documento, dal titolo: “La teologia oggi. Prospettive, principi e criteri”.

Ma più che su questo tema generale – da lui già sviluppato in altre occasioni – Benedetto XVI ha voluto soffermarsi su due precisi oggetti di disputa, entrambi esaminati dalla commissione teologica nel corso della plenaria.

Il primo è il “sensus fidelium“, cioè l’universale consenso in atto nel popolo cristiano su materie di fede e di morale.

Di tale consenso – ha denunciato il papa – si danno molte “contraffazioni”, specie quando lo si identifica con una presunta “opinione pubblica ecclesiale” messa in gioco “per contestare gli insegnamenti del magistero”.

Il secondo “pregiudizio” che Benedetto XVI ha preso di mira è quello secondo cui le religioni monoteiste “sarebbero intrinsecamente portatrici di violenza” a motivo della loro pretesa di verità, e quindi solo il “politeismo dei valori” garantirebbe la tolleranza e la pace civile.

Ecco qui di seguito il testo integrale del discorso rivolto da Benedetto XVI il 7 dicembre alla commissione teologica internazionale, con le risposte che egli ha dato a entrambe le questioni.

Un discorso passato quasi inosservato, ma molto espressivo della sensibilità di questo papa teologo.

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IN DIFESA DELLA FEDE DEI SEMPLICI
di Benedetto XVI

Venerati fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, illustri professori e cari collaboratori,

con grande gioia vi accolgo al termine dei lavori della vostra sessione plenaria annuale. Saluto di cuore il vostro nuovo presidente, Mons. Gerhard Ludwig Müller, che ringrazio per le parole che mi ha indirizzato a nome di tutti, così come il nuovo segretario generale, il padre Serge-Thomas Bonino.

La vostra sessione plenaria si è svolta nel contesto dell’Anno della fede, e sono profondamente lieto che la commissione teologica internazionale abbia voluto manifestare la sua adesione a questo evento ecclesiale attraverso un pellegrinaggio alla basilica papale di Santa Maria Maggiore, per affidare alla Vergine Maria, “praesidium fidei“, i lavori della vostra commissione e per pregare per tutti coloro che, “in medio Ecclesiae”, si dedicano a far fruttificare l’intelligenza della fede a beneficio e gioia spirituale di tutti i credenti. Grazie per questo gesto straordinario.

Esprimo apprezzamento per il messaggio che avete redatto in occasione di quest’Anno della fede. Esso mette bene in luce il modo specifico in cui i teologi, servendo fedelmente la verità della fede, possono partecipare allo slancio evangelizzatore della Chiesa.

Questo messaggio riprende i temi che avete sviluppato più ampiamente nel documento “La teologia oggi. Prospettive, principi e criteri”, pubblicato all’inizio di quest’anno.

Prendendo atto della vitalità e della varietà della teologia dopo il Concilio Vaticano II, questo documento intende presentare, per così dire, il codice genetico della teologia cattolica, cioè i principi che definiscono la sua stessa identità e, di conseguenza, garantiscono la sua unità nella diversità delle sue realizzazioni.

A tale scopo, il testo chiarisce i criteri per una teologia autenticamente cattolica e pertanto capace di contribuire alla missione della Chiesa, all’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini. In un contesto culturale dove taluni sono tentati o di privare la teologia di uno statuto accademico, a causa del suo legame intrinseco con la fede, o di prescindere dalla dimensione credente e confessionale della teologia, con il rischio di confonderla e di ridurla alle scienze religiose, il vostro documento ricorda opportunamente che la teologia è inscindibilmente confessionale e razionale e che la sua presenza all’interno dell’istituzione universitaria garantisce, o dovrebbe garantire, una visione ampia ed integrale della stessa ragione umana.

Tra i criteri della teologia cattolica, il documento menziona l’attenzione che i teologi devono riservare al “sensus fidelium“. È molto utile che la vostra commissione si sia concentrata anche su questo tema che è di particolare importanza per la riflessione sulla fede e per la vita della Chiesa.

Il concilio Vaticano II, ribadendo il ruolo specifico ed insostituibile che spetta al magistero, ha sottolineato nondimeno che l’insieme del popolo di Dio partecipa dell’ufficio profetico di Cristo, realizzando così il desiderio ispirato, espresso da Mosè: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Nm 11, 29).

La costituzione dogmatica “Lumen gentium” insegna al riguardo: “La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2, 20.27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale” (n. 12).

Questo dono, il “sensus fidei“, costituisce nel credente una sorta di istinto soprannaturale che ha una connaturalità vitale con lo stesso oggetto della fede. Osserviamo che proprio i semplici fedeli portano con sé questa certezza, questa sicurezza del senso della fede. Il “sensus fidei” è un criterio per discernere se una verità appartenga o no al deposito vivente della tradizione apostolica. Presenta anche un valore propositivo perché lo Spirito Santo non smette di parlare alle Chiese e di guidarle verso la verità tutta intera.

Oggi, tuttavia, è particolarmente importante precisare i criteri che permettono di distinguere il “sensus fidelium” autentico dalle sue contraffazioni. In realtà, esso non è una sorta di opinione pubblica ecclesiale, e non è pensabile poterlo menzionare per contestare gli insegnamenti del magistero, poiché il “sensus fìdei” non può svilupparsi autenticamente nel credente se non nella misura in cui egli partecipa pienamente alla vita della Chiesa, e ciò esige l’adesione responsabile al suo magistero, al deposito della fede.

Oggi, questo stesso senso soprannaturale della fede dei credenti porta a reagire con vigore anche contro il pregiudizio secondo cui le religioni, ed in particolare le religioni monoteiste, sarebbero intrinsecamente portatrici di violenza, soprattutto a causa della pretesa che esse avanzano dell’esistenza di una verità universale.

Alcuni ritengono che solo il “politeismo dei valori” garantirebbe la tolleranza e la pace civile e sarebbe conforme allo spirito di una società democratica pluralistica. In questa direzione, il vostro studio sul tema “Dio Trinità, unità degli uomini. Cristianesimo e monoteismo” è di viva attualità.

Da una parte, è essenziale ricordare che la fede nel Dio unico, creatore del cielo e della terra, incontra le esigenze razionali della riflessione metafisica, la quale non viene indebolita ma rinforzata ed approfondita dalla rivelazione del mistero del Dio-Trinità.

Dall’altra parte, bisogna sottolineare la forma che la rivelazione definitiva del mistero dell’unico Dio prende nella vita e morte di Gesù Cristo, che va incontro alla Croce come “agnello condotto al macello” (Is 53, 7). Il Signore attesta un rifiuto radicale di ogni forma di odio e violenza a favore del primato assoluto dell’agape.

Se dunque nella storia vi sono state o vi sono forme di violenza operate nel nome di Dio, queste non sono da attribuire al monoteismo, ma a cause storiche, principalmente agli errori degli uomini. Piuttosto è proprio l’oblio di Dio ad immergere le società umane in una forma di relativismo, che genera ineluttabilmente la violenza.

Quando si nega la possibilità per tutti di riferirsi ad una verità oggettiva, il dialogo viene reso impossibile e la violenza, dichiarata o nascosta, diventa la regola dei rapporti umani. Senza l’apertura al trascendente, che permette di trovare delle risposte agli interrogativi sul senso della vita e sulla maniera di vivere in modo morale, senza questa apertura l’uomo diventa incapace di agire secondo giustizia e di impegnarsi per la pace.

Se la rottura del rapporto degli uomini con Dio porta con sé uno squilibrio profondo nelle relazioni tra gli uomini stessi,la riconciliazione con Dio, operata dalla croce di Cristo, “nostra pace” (Ef 2, 14) è la sorgente fondamentale dell’unità e della fraternità.

In questa prospettiva, si colloca anche la vostra riflessione sul terzo tema, quello della dottrina sociale della Chiesa nell’insieme della dottrina della fede. Essa conferma che la dottrina sociale non è un’aggiunta estrinseca, ma, senza trascurare l’apporto di una filosofia sociale, attinge i suoi principi di fondo alle sorgenti stesse della fede.

Tale dottrina cerca di rendere effettivo, nella grande diversità delle situazioni sociali, il comandamento nuovo che il Signore Gesù ci ha lasciato: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

Preghiamo la Vergine Immacolata, modello di chi ascolta e medita la Parola di Dio, che vi ottenga la grazia di servire sempre gioiosamente l’intelligenza della fede a favore di tutta la Chiesa. Rinnovando l’espressione della mia profonda gratitudine per il vostro servizio ecclesiale, vi assicuro la mia costante vicinanza nella preghiera e imparto di cuore a voi tutti la benedizione apostolica.

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Una premessa capitale al discorso di Benedetto XVI alla commissione teologica internazionale è la lezione da lui tenuta il 30 giugno 2011 in occasione del conferimento del “premio Ratzinger” ai professori Simonetti, González de Cardedal e Heim.

In essa Benedetto XVI spiega “che cosa è vera teologia“, in quanto “scienza della fede“:

CONFERIMENTO DEL “PREMIO RATZINGER”

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sala Clementina
Giovedì, 30 giugno 2011

 

Signori Cardinali,
venerati Confratelli,
illustri Signori e Signore!

Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia e gratitudine per il fatto che, con la consegna del suo premio teologico, la Fondazione che porta il mio nome dia pubblico riconoscimento all’opera condotta nell’arco di un’intera vita da due grandi teologi, e ad un teologo della generazione più giovane dia un segno di incoraggiamento per progredire sul cammino intrapreso.

Con il Professor González de Cardedal mi lega un cammino comune di molti decenni. Entrambi abbiamo iniziato con san Bonaventura e da lui ci siamo lasciati indicare la direzione. In una lunga vita di studioso, il Professor Gonzalez ha trattato tutti i grandi temi della teologia, e ciò non semplicemente riflettendone o parlandone a tavolino, bensì sempre confrontato al dramma del nostro tempo, vivendo e anche soffrendo in modo del tutto personale le grandi questioni della fede e con ciò le questioni dell’uomo d’oggi. In tal modo, la parola della fede non è una cosa del passato; nelle sue opere diventa veramente a noi contemporanea.

Il Professor Simonetti ci ha aperto in modo nuovo il mondo dei Padri. Proprio mostrandoci, dal punto di vista storico, con precisione e cura ciò che dicono i Padri, essi diventano persone a noi contemporanee, che parlano con noi.

Il Padre Maximilian Heim è stato recentemente eletto Abate del monastero di Heiligenkreuz presso Vienna – un monastero ricco di tradizione – assumendo con ciò il compito di rendere attuale una grande storia e di condurla verso il futuro. In questo, spero che il lavoro sulla mia teologia, che egli ci ha donato, possa essergli utile e che l’Abbazia di Heiligenkreuz possa, in questo nostro tempo, sviluppare ulteriormente la teologia monastica, che sempre ha accompagnato quella universitaria, formando con essa l’insieme della teologia occidentale.

Non è, però, mio compito tenere qui una laudatio dei premiati, che è già stata fatta in maniera competente dal Cardinale Ruini. Forse però la consegna del premio può offrire l’occasione di dedicarci per un momento alla questione fondamentale di che cosa sia veramente “teologia”.

La teologia è scienza della fede, ci dice la tradizione. Ma qui sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza quando è ordinata o addirittura subordinata alla fede?

Tali questioni, che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione. Si comprende così perché, nell’età moderna, la teologia in vasti ambiti si sia ritirata primariamente nel campo della storia, al fine di dimostrare qui la sua seria scientificità.

Bisogna riconoscere, con gratitudine, che con ciò sono state realizzate opere grandiose, e il messaggio cristiano ha ricevuto nuova luce, capace di renderne visibile l’intima ricchezza. Tuttavia, se la teologia si ritira totalmente nel passato, lascia oggi la fede nel buio.

In una seconda fase ci si è poi concentrati sulla prassi, per mostrare come la teologia, in collegamento con la psicologia e la sociologia, sia una scienza utile che dona indicazioni concrete per la vita. Anche questo è importante,ma se il fondamento della teologia, la fede, non diviene contemporaneamente oggetto del pensiero, se la prassi è riferita solo a se stessa, oppure vive unicamente dei prestiti delle scienze umane, allora la prassi diventa vuota e priva di fondamento.

Queste vie, quindi, non sono sufficienti. Per quanto siano utili ed importanti, esse diventerebbero sotterfugi, se restasse senza risposta la vera domanda. Essa suona: è vero ciò in cui crediamo oppure no?

Nella teologia è in gioco la questione circa la verità; essa è il suo fondamento ultimo ed essenziale. Un’espressione di Tertulliano può qui farci fare un passo avanti; egli scrive che Cristo non ha detto: Io sono la consuetudine, ma: Io sono la verità – non consuetudo sed veritas (Virg. 1,1).

Christian Gnilka ha mostrato che il concetto consuetudo può significare le religioni pagane che, secondo la loro natura, non erano fede, ma erano “consuetudine”: si fa ciò che si è fatto sempre; si osservano le tradizionali forme cultuali e si spera di rimanere così nel giusto rapporto con l’ambito misterioso del divino.

L’aspetto rivoluzionario del cristianesimo nell’antichità fu proprio la rottura con la “consuetudine” per amore della verità. Tertulliano parla qui soprattutto in base al Vangelo di san Giovanni, in cui si trova anche l’altra interpretazione fondamentale della fede cristiana, che s’esprime nella designazione di Cristo come Logos.

Se Cristo è il Logos, la verità, l’uomo deve corrispondere a Lui con il suo proprio logos, con la sua ragionePer arrivare fino a Cristo, egli deve essere sulla via della verità. Deve aprirsi al Logos, alla Ragione creatrice, da cui deriva la sua stessa ragione e a cui essa lo rimanda.

Da qui si capisce che la fede cristiana, per la sua stessa natura, deve suscitare la teologia, doveva interrogarsi sulla ragionevolezza della fede, anche se naturalmente il concetto di ragione e quello di scienza abbracciano molte dimensioni, e così la natura concreta del nesso tra fede e ragione doveva e deve sempre nuovamente essere scandagliata.

Per quanto si presenti dunque chiara nel cristianesimo il nesso fondamentale tra Logos, verità e fede – la forma concreta di tale nesso ha suscitato e suscita sempre nuove domande. È chiaro che in questo momento tale domanda, che ha occupato e occuperà tutte le generazioni, non può essere trattata in dettaglio, e neppure a grandi linee. Vorrei tentare soltanto di proporre una piccolissima nota.

San Bonaventura, nel prologo al suo Commento alle Sentenze ha parlato di un duplice uso della ragione – di un uso che è inconciliabile con la natura della fede e di uno che invece appartiene proprio alla natura della fede.

Esiste, così si dice, la violentia rationis, il dispotismo della ragione, che si fa giudice supremo e ultimo di tutto.Questo genere di uso della ragione è certamente impossibile nell’ambito della fede.

Cosa intende Bonaventura con ciò? Un’espressione dal Salmo 95,9 può mostrarci di che cosa si tratta. Qui Dio dice al suo popolo: “Nel deserto … mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere”. Qui si accenna ad un duplice incontro con Dio: essi hanno “visto”. Questo però a loro non basta. Essi mettono Dio “alla prova”. Vogliono sottoporlo all’esperimento. Egli viene, per così dire, sottoposto ad un interrogatorio e deve sottomettersi ad un procedimento di prova sperimentale.

Questa modalità di uso della ragione, nell’età moderna, ha raggiunto il culmine del suo sviluppo nell’ambito delle scienze naturali. La ragione sperimentale appare oggi ampiamente come l’unica forma di razionalità dichiarata scientifica. Ciò che non può essere scientificamente verificato o falsificato cade fuori dell’ambito scientifico. Con questa impostazione sono state realizzate opere grandiose, come sappiamo; che essa sia giusta e necessaria nell’ambito della conoscenza della natura e delle sue leggi nessuno vorrà seriamente porlo in dubbio.

Esiste tuttavia un limite a tale uso della ragione: Dio non è un oggetto della sperimentazione umana. Egli è Soggetto e si manifesta soltanto nel rapporto da persona a persona: ciò fa parte dell’essenza della persona.

In questa prospettiva Bonaventura fa cenno ad un secondo uso della ragione, che vale per l’ambito del “personale”, per le grandi questioni dello stesso essere uomini. L’amore vuole conoscere meglio colui che amaL’amore, l’amore vero, non rende ciechi, ma vedenti. Di esso fa parte proprio la sete di conoscenza, di una vera conoscenza dell’altro.

Per questo, i Padri della Chiesa hanno trovato i precursori e gli antesignani del cristianesimo – al di fuori del mondo della rivelazione di Israele – non nell’ambito della religione consuetudinaria, bensì negli uomini in ricerca di Dio, in cerca della verità, nei “filosofi”: in persone che erano assetate di verità ed erano quindi sulla strada verso Dio.Quando non c’è questo uso della ragione, allora le grandi questioni dell’umanità cadono fuori dell’ambito della ragione e vengono lasciate all’irrazionalità.

Per questo un’autentica teologia è così importante. La fede retta orienta la ragione ad aprirsi al divino, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio più da vicino. L’iniziativa per questo cammino sta presso Dio, che ha posto nel cuore dell’uomo la ricerca del suo Volto.

Fa quindi parte della teologia, da un lato l’umiltà che si lascia “toccare” da Dio, dall’altro la disciplina che si lega all’ordine della ragione, che preserva l’amore dalla cecità e che aiuta a sviluppare la sua forza visiva.

Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio. Perciò siamo grati ai premiati che hanno mostrato nella loro opera che la ragione, camminando sulla pista tracciata dalla fede, non è una ragione alienata, ma è la ragione che risponde alla sua altissima vocazione. Grazie.

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