3 giugno. Da: I Quaderni del 1944 di Maria Valtorta

3 giugno 1944.

 Gesù mi mostra una riunione di cristiani[1] ai primissimi tempi dopo la Pentecoste. Dico “primissimi” perché i dodici – sono da capo dodici e perciò Mattia è già eletto[2] – non si sono ancora divisi per andare ad evangelizzare la terra. Perciò penso che sia da poco accaduta la Pentecoste. Però coi dodici sono, adesso, molti discepoli.

Sono tutti nel Cenacolo, il quale ha subito una modificazione necessaria alla sua nuova funzione e imposta dal numero dei fedeli. Il tavolone non è più contro la parete della scaletta, ma contro quella di faccia, di modo che anche coloro che non possono entrare nel Cenacolo, prima delle chiese di tutto il mondo – Gesù me lo fa riflettere – possono vedere ciò che avviene in esso, pigiandosi nel corridoio d’ingresso presso la porticina aperta completamente.

Vi sono uomini e donne, di tutte le età. In un gruppo di donne, presso il tavolone ma in un angolo, è Maria circondata dalla Maddalena, Marta, Veronica, Maria di Cleofe, Salome, la padrona di casa. Le nomino come mi vengono, non per dare una speciale classificazione. Vi è anche un’altra che era anche sul Calvario. Ma non so come si chiama. Fra gli uomini riconosco Nicodemo, Lazzaro, Giuseppe d’Arimatea, e mi pare anche Longino, ma è…  In licenza, dirò così, perché non è vestito da soldato, ma ha una veste lunga e bigiognola come fosse un cittadino. Forse se l’è messa per non dare nell’occhio. Non so. Altri non ne conosco.

Pietro parla istruendo gli accolti. Racconta ancora dell’ultima Cena.[3] Dico “ancora” perché è lui stesso che dice: «Vi dico ancora una volta di questa Cena in cui, prima d’essere immolato dagli uomini, Gesù Nazzareno, come era detto, Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore nostro, come va detto e creduto con tutto il cuore e la mente perché in questo credere è la salvezza nostra, si immolò di sua spontanea volontà e per eccesso di amore, dandosi in Cibo e Bevanda agli uomini dicendo: “Fate questo in memoria di Me”. E questo facciamo. Ma, o uomini, come noi, suoi testimoni, crediamo essere nel pane e nel vino, offerti e benedetti, come Egli fece, in sua memoria e per obbedienza al suo comando, il suo Ss. Corpo ed il suo Ss. Sangue – quel Corpo e quel Sangue che sono di un Dio, Figlio di Dio altissimo, e che sono stati crocifissi e sparsi per noi – così voi lo dovete credere. Credete e benedite il Signore che a noi, suoi crocifissori, lascia questo eterno segno di perdono. Credete e benedite il Signore, che a coloro che non lo conobbero quando era il Nazzareno permette lo conoscano ora che è il Verbo incarnato ricongiunto al Padre. Venite e prendete. Udite le parole che Egli vi dice. Venite e prendete. Egli l’ha detto: “Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue avrà la vita eterna”.[4] E noi allora non capimmo… (Pietro piange). Non capimmo perché eravamo tardi d’intelletto. Ma ora lo Spirito ha acceso la nostra intelligenza, fortificato la fede, infuso la carità, e noi comprendiamo. E nel Nome altissimo di Dio, del Dio di Abramo, di Giacobbe, di Mosè, nel Nome altissimo del Dio che parlò a Isaia, Geremia, Ezechiele, vi giuriamo che questa è verità e vi scongiuriamo di credere per avere vita eterna.»

Pietro è pieno di maestà nel parlare. Non ha più nulla del pescatore alquanto rozzo di solo poco tempo prima. È montato su uno sgabello perché, bassotto come è, non sarebbe visto dai più lontani se stesse coi piedi al suolo, ed egli vuol dominare la folla. Parla misurato, con voce giusta e gesti da vero oratore. I suoi occhi, espressivi sempre, sono ora parlanti più che mai: amore, fede, imperio, contrizione, tutto traspare dallo sguardo e anticipa e rinforza le parole.

Adesso scende dallo sgabello e passa dietro il tavolone fra il muro e questo, e attende.

Giacomo e Giuda (Giacomo fratello di Giuda[5]) stendono sulla tavola una tovaglia candida. Sollevano, per fare questo, il cofano largo e basso che è posto al centro del tavolo, e anche sul coperchio di quello stendono un lino finissimo.

Giovanni va da Maria e le chiede qualche cosa. Ella si sfila dal collo una specie di chiavicina e la dà a Giovanni. Giovanni va al cofano e lo apre. Si apre ribaltando la parte davanti che viene appoggiata sulla tovaglia e ricoperta da un terzo lino.

Nell’interno vi è una sezione orizzontale che divide in due piani il cofano. In basso è un calice e un piatto di metallo. In alto, al centro, il calice usato da Gesù, il pane spezzato da Lui su un piattello prezioso come il calice. Ai lati di questi, da un lato la corona di spine, i chiodi, la spugna. Dall’altra la sindone, il velo di Maria che fasciò i lombi di Gesù, e il velo della Veronica.

Vi sono altre cose sul fondo, ma non capisco che sono né nessuno ne parla o le mostra. Mentre per queste che ho detto, meno il calice e il pane che restano dove sono, vengono presi e mostrati alla folla, che si inginocchia, da Giovanni e Giuda.

Poi gli apostoli intonano delle preghiere, degli inni, direi, perché sono cantilenati. La folla risponde.

Infine vengono portati dei pani e posti sul vassoio di metallo (non quello di Gesù) e delle piccole anfore.

Pietro riceve da Giovanni, che sta inginocchiato al di qua del tavolo – mentre Pietro è sempre fra il tavolo e il muro, col volto verso la folla – il vassoio coi pani, e Pietro lo alza e offre. Poi lo benedice e lo posa sul cofano. Giuda porge, stando anche lui in ginocchio, il calice (non quello di Gesù) e due anfore dalle quali Pietro mesce nel calice e offre. Poi benedice e posa sul cofano.

Pregano ancora, poi Pietro spezza i pani in molti bocconi, mentre la folla si prostra più ancora, e dice: «Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me».

E poi esce da dietro il tavolo portando seco il vassoio carico di bocconi di pane e per prima cosa va da Maria e le dà un boccone. Poi passa sul davanti del tavolo e distribuisce il pane. Ne restano pochi bocconi che vengono, sempre sul loro vassoio, deposti sul cofano. Poi prende il calice e lo gira, cominciando da Maria, fra i convenuti. Giovanni e Giuda lo seguono con le anforette e mescono quando il calice è vuoto.

Quando tutto è distribuito, gli apostoli consumano i bocconi rimasti e il vino. Indi cantano un altro inno e poi Pietro benedice e la folla se ne va poco a poco.

Maria si alza – è sempre rimasta in ginocchio – e va al cofano. Si curva attraverso il tavolone e tocca con la fronte il piano del cofano deponendo un bacio sull’orlo del calice di Gesù. Un bacio che è per tutte le reliquie ivi raccolte. Poi Giovanni chiude e rende la chiave a Maria.

Credo di avere visto, esattamente, come era all’inizio, la S. Messa. E, di questo ne sono certa, entro il tempo pentecostale Gesù, secondo la sua promessa, mi accontenta nella seconda cosa che volevo sapere (29-5). Perché le anime le vedevo di diverso colore, me lo spiega nel dettato del 31 maggio.

E cosa c’era nel cofano così caro a Maria[6] lo so ora. Esso era insieme reliquiario e primo tabernacolo. E molto mi piace pensare che era Maria colei che lo possedeva e ne aveva la chiave. Maria: la Tesoriera di tutto quanto è Gesù, la Sacerdotessa[7] della più vera Chiesa.

 


[1] La stessa visione si ritroverà all’inizio del quaderno n. 100, copiata quasi fedelmente dalla scrittrice, con la stessa data e con aggiunta di particolari, come episodio da inserirsi nel ciclo della “Glorificazione” della grande opera sul Vangelo con il titolo: “Pietro, non più rozzo pescatore, nelle sue nuove vesti di pontefice”.

[2] Atti 1, 15-26.

[3] Matteo 26, 17-29; Marco 14, 12-25; Luca 22, 7-20; 1 Corinti 11, 23-34.

[4] Giovanni 6, 22-59.

[5] di Alfeo.

[6] Nella visione del 28 maggio,

[7] Sacerdotessa e Madre del Sacerdozio (come ne «i quaderni del 1943», pag. 209, 230, 420 e 452) nel senso che, essendo vera Madre di Gesù, Sacerdote supremo ed eterno, era la prima ad essere a Lui intimamente unita. Rileggi, nel dettato del 18 maggio, l’ultimo capoverso.

 

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