I talenti di don Pietro. Sacerdote e diplomatico

30/08/2013 
 
Pietro Parolin

PIETRO PAROLIN

Un ritratto dell’arcivescovo Parolin, che domani potrebbe diventare Segretario di Stato vaticano. Una scelta che sarebbe rivelatrice dei sentieri che intende percorrere il pontificato di Bergoglio

GIANNI VALENTE
ROMA

Il 58enne Pietro Parolin aveva lasciato Roma quattro anni fa, ordinato arcivescovo da papa Benedetto XVI e inviato come nunzio in Venezuela, dopo essere stato per sette anni “viceministro” degli esteri vaticano. Secondo le indiscrezioni circolate nelle ultime ore, ora Papa Francesco lo avrebbe scelto come suo primo collaboratore, richiamandolo nell’Urbe come futuro Segretario di Stato. Parolin diventerebbe il più giovane “arruolato” in quella carica dai tempi di Eugenio Pacelli. Se la notizia verrà confermata, la nomina di Parolin offrirà nuovi spunti per immaginare il cammino che la Chiesa di Roma potrà compiere nei prossimi anni. Per accorgersene, basta guardare i passaggi chiave dell’avventura umana e cristiana dell’attuale rappresentante pontificio in terra venezuelana.

Il nuovo Segretario di Stato nasce a Schiavon, in provincia e diocesi di Vicenza, il 17 gennaio del 1955. La fede in Gesù la assorbe fin dalla prima infanzia nell’ordito della “civiltà parrocchiale” in cui vive immerso, quella del Veneto bianco dal cuore magnanimo e laborioso. Il papà, cattolico “da messa quotidiana”, gestisce un negozio di ferramenta e poi comincia a occuparsi di vendita di macchine agricole. La mamma fa la maestra elementare. Quando Pietro ha dieci anni, la famiglia Parolin viene visitata dal dolore: il padre, mentre sta per rimontare sulla sua vettura, sulla strada tra Bassano e Vicenza viene travolto da un’auto e muore sul colpo. Da quel momento i tre figli – Pietro, sua sorella e il fratellino che al momento della disgrazia ha solo otto mesi – sono testimoni ogni giorno dei piccoli ordinari eroismi compiuti dalla mamma maestra per farli crescere senza che manchi loro niente di importante.

Pietro fa il chierichetto in parrocchia. Il parroco di allora, don Augusto Fornasa – che morirà a Schiavon nei primi anni Ottanta – coglie e coltiva in lui la vocazione al sacerdozio, in un ambiente segnato dalla memoria di grandi figure di pastori “sociali” come don Giuseppe Arena e don Elia Dalla Costa, divenuto arcivescovo di Firenze dal ’31 al ’61.

Nel 1969, a 14 anni, Pietro entra nel seminario di Vicenza. Dopo la maturità classica prosegue con gli studi di filosofia e teologia. Le inquietudini feconde e quelle più corrosive del postconcilio agitano anche la vita del seminario. Pietro si tiene defilato rispetto alle turbolenze di quel periodo. Apprezza la linea pastorale del vescovo Arnoldo Onisto, la capacità di ascolto, di mediazione e di attenzione ai problemi degli operai esercitata in quegli anni da quel buon uomo di Dio dal fare dimesso.

Già in seminario, i superiori si sono accorti che Pietro “riesce bene” negli studi. Dopo l’ordinazione sacerdotale – ricevuta nel 1980 dalle mani del vescovo Onisto – e due anni come viceparroco nella parrocchia della Santissima Trinità di Schio, lo spediscono a studiare diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana, con l’idea di impiegarlo poi nel tribunale diocesano e nel settore della pastorale familiare. Ma da Roma – dove don Pietro risiede al Collegio Teutonico di via della Pace – qualcuno chiede al vescovo di mettere quel giovane sacerdote discreto e lavoratore a disposizione della Santa Sede. Lui, come sempre, accetta di andare dove lo mandano. Coi sistemi di selezione “anonimi” che un tempo funzionavano nei Palazzi d’Oltretevere, finisce quasi per caso nell’orbita del servizio diplomatico vaticano, senza neanche sapere chi sia stato il suo primo talent scout.

Nell’estate del 1983 entra nella Pontificia Accademia ecclesiastica, Nell’86 si laurea in diritto canonico con una tesi sul Sinodo dei vescovi. Poi parte per la sua prima missione: tre anni presso la nunziatura in Nigeria, a cui seguiranno altri tre (’89-’92) presso la nunziatura in Messico. Nella prima destinazione si coinvolge nelle attività pastorali delle comunità locali e conosce da vicino le problematiche del rapporto tra cristiani e musulmani. In Messico dà il suo apporto alla fase conclusiva del lungo lavoro realizzato dal nunzio Girolamo Prigione che proprio nel 1992 porterà al riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica e all’allacciamento di relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Nazione messicana. Si compirà attraverso quelle laboriose trattative diplomatiche l’affrancamento formale dall’impronta laicista e anticlericale che aveva connotato da sempre il Paese fin nel suo impianto costituzionale.

Nel 1992 Parolin viene richiamato a Roma per lavorare nella seconda sezione della Segreteria di Stato. Sono gli anni del wojtylismo ancora a forte proiezione geo-politica, alle prese con il collasso del blocco comunista e gli effetti della prima guerra del Golfo. A capo della diplomazia pontificia c’è il cardinale Angelo Sodano, che nel dicembre 1990 ha sostituito Agostino Casaroli. Al giovane funzionario rientrato dal Messico vengono affidati dossier in ordine sparso: Paesi e Chiese africani e latinoamericani, Spagna, Indonesia. Nel 2000 inizia a occuparsi della “sezione” italiana: collabora con monsignor Attilio Nicora – oggi cardinale – su questioni ancora aperte legate alla revisione del Concordato avvenuta nel 1984, come quelle relative all’Ordinariato militare o all’assistenza religiosa per i carcerati e negli ospedali.

Nel 2002 Parolin viene nominato sottosegretario della seconda sezione della Segreteria di Stato, quella dedicata ai rapporti con gli Stati. Nella veste di “vice-ministro degli esteri” vaticano si prende in carico i dossier delicati riguardanti i rapporti della Santa Sede con il Vietnam – che anche grazie a lui imboccano in maniera decisa la strada verso l’allacciamento di piene relazioni diplomatiche – e le questioni giuridiche ancora aperte tra  Vaticano e Israele. A partire dal 2005, con l’inizio del pontificato ratzingeriano, riprendono anche i contatti diretti con la Cina popolare. In quel contesto matura anche la Lettera rivolta nel giugno 2007 da Benedetto XVI ai cattolici cinesi, che rimane uno dei testi magisteriali più rilevanti del pontificato.

In quegli anni, il sotto-segretario vicentino guida la delegazione vaticana nelle trattative riservate coi funzionari cinesi per sciogliere i nodi che ancora rendono anomala e sofferente la condizione dei cattolici in Cina. Per due volte vola anche a Pechino, insieme agli altri membri della delegazione vaticana. In quegli anni, sembra prendere forma l’inizio di una svolta concreta nei travagliati rapporti sino-vaticani. Poi, nell’estate 2009, Parolin viene nominato nunzio a Caracas, spedito a vedersela con la gatta da pelare del Caudillo Chàvez e dei suoi rapporti sempre burrascosi con la gerarchia cattolica locale. Il 12 settembre di quell’anno, Parolin riceve l’ordinazione episcopale dalle mani di Benedetto XVI. Da qualche settimana è esploso il “caso Boffo”. Le baruffe tra bande ecclesiali, con la loro tragicomica ferocia, hanno raggiunto una fase virulenta. Papa Ratzinger, proprio nell’omelia per la messa in cui viene ordinato vescovo anche Parolin – scritta evidentemente di suo pugno – ricorda in riferimento ai «litigi» sempre presenti nella Chiesa che «il sacerdozio non è dominio, ma servizio» e che «le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità».

In occasione del suo trasferimento a Caracas, qualcuno ha cercato di accreditare sui media l’affiliazione di Parolin alla “corrente” di ascendenze casaroliane legata al cardinale Achille Silvestrini, che fu segretario della seconda sezione della Segreteria di Stato dal ’79 all’88. Manovre che nel caso di Parolin rivelano subito la loro matrice pregiudiziale. Se si sta alle cose, appare evidente che in Segreteria di Stato il suo profilo di funzionario leale e competente è stato valorizzato di volta in volta da superiori di orientamento e sensibilità diversi. Parolin ha prestato la sua collaborazione discreta e fattiva a Casaroli e Silvestrini, Sodano e Tauran, Lajolo, Bertone e Mamberti.

Proprio negli anni della Segreteria Bertone ha avuto occasione di gestire dossier cruciali come quello cinese. Con Casaroli i momenti di dialogo personale diretto li ha avuti quando il grande Segretario di Stato era già in pensione. Con Silvestrini i rapporti più intensi li ha sviluppati alla metà degli anni Novanta intorno a questioni riguardanti non la Curia romana, bensì la gestione di Villa Nazareth, l’istituzione benefica istituita dal cardinale Domenico Tardini nel 1946 per sostenere la formazione di ragazzi meritevoli ma privi di mezzi. Su richiesta di Silvestrini – che già negli anni Settanta era il grande supporter ecclesiastico del convitto – nel ’96 Parolin aveva accettato di assumerne la direzione, trasferendosi a vivere nella residenza universitaria alla Pineta Sacchetti. Ma quattro anni dopo, con l’intensificarsi del lavoro in Segreteria di Stato, si era accorto che per lui quell’incarico impegnativo era insostenibile, e vi aveva rinunciato. Silvestrini ne era rimasto amareggiato, pur conservando stima e simpatia nei confronti di Parolin.

Se Parolin diventerà Segretario di Stato, si può immaginare che, anche per temperamento, proverà a valorizzare sensibilità ecclesiali diverse, nell’orizzonte aperto della Chiesa non auto-referenziale costantemente suggerito da Papa Bergoglio. Se c’è un tratto rintracciabile nel modus operandi di Parolin è quello riconducibile alla grande tradizione diplomatica vaticana: realismo, studio approfondito dei contesti e dei problemi da affrontare, ricerca delle soluzioni possibili. Davanti ai conflitti regionali che continuano a stravolgere il mondo – a partire dal Medio Oriente – e ai rischi di nuovi scontri globali tra superpotenze antiche e nuove, la Santa Sede potrà offrire ancora il suo contributo di saggezza e lungimiranza per favorire i cammini della pace. Accantonando presunzioni di protagonismo geopolitico, anche lo strumento della diplomazia vaticana, sintonizzato sulla «conversione pastorale» suggerita da Papa Francesco, potrà offrire un contributo creativo all’azione della Chiesa invitata con insistenza dal vescovo di Roma a «uscire da se stessa» per andare incontro a tutti gli uomini nelle periferie geografiche e esistenziali in cui vivono.

Soprattutto, con Parolin sarebbero fatalmente destinate alla rottamazione le false dialettiche che negli ultimi anni hanno provato insistentemente a contrapporre diplomazia e proclamazione della fede, realismo dialogante e difesa dell’identità e dei valori cristiani. Tutta la storia della Chiesa suggerisce che proprio la fede evangelica può rendere più lungimiranti nell’esercitare intelligenza e prudenza davanti alle dinamiche reali del mondo e del potere. Per Parolin, il servizio reso alla Santa Sede è sempre stato solo un modo di esercitare la propria spiritualità sacerdotale. La stessa espressa nell’entusiasmo da lui manifestato davanti alla fede dei neofiti montagnard vietnamiti, o nella letizia con cui si è immerso nella vita pulsante del cattolicesimo venezuelano. Come motto episcopale ha scelto la domanda retorica di San Paolo nella lettera ai Romani: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Qualsiasi cosa accada, è facile intuire a chi “don Pietro” si affiderà affinché sia custodita la pace del suo cuore.

Precedente Bertone va in pensione, arriva Parolin Successivo “Facile avviare attacchi aerei in Siria, difficile fermare le conseguenze”