Quando era scandaloso chiamarsi fratelli e sorelle

La costruzione di un’identità cristiana nelle lapidi funerarie dei primi secoli

Quando era scandaloso
chiamarsi fratelli e sorelle

di Carlo Carletti

Nell’omelia pronunciata in occasione della celebrazione del dies natalis di Pietro e Paolo, Benedetto XVI, ispirandosi alla esperienza vissuta dai due Apostoli, ha richiamato con accenti di luminosa semplicità la novità immanente e trascendente implicita nel principio di fraternità cristiana. E in questa prospettiva, nella riflessione consegnata all’editoriale sul nostro giornale del 30 giugno – 1° luglio è stata concettualizzata con pieno senso della storia l’immagine della Chiesa universale come la più alta espressione della fraternità cristiana.

Quando si parla di fraternità dei cristiani – quella che si pone a di là e al di sopra della consanguineità – non si enuncia soltanto un principio assoluto, un’opzione preferenziale, ma un modo di essere e di vivere che accompagna e caratterizza fin dal suo nascere la comunità dei cristiani, non solo nelle proposizioni di principio che di necessità emergevano nella apologetica e nella polemica, ma anche nella storia concreta del vissuto quotidiano, di cui nelle testimonianze epigrafiche si trovano tracce consistenti, genuine, non mediate.

È questo l’ambito nel quale persone e situazioni, altrimenti ignote, assumono spessore storico integrale, sempre nei limiti naturalmente del carattere della memoria epigrafica, nella quale sempre e comunque soggiace un atteggiamento di autorappresentazione, che è quello però – sul piano della ricostruzione storica – che delinea un immaginario collettivo e dunque un’istanza comportamentale consapevolmente condivisa.

E pertanto possiamo utilmente rileggere una fondamentale iscrizione funeraria del primo ventennio del III secolo, proveniente da un cimitero all’aperto sulla via Salaria Vetus (in prossimità della catacomba di Sant’Ermete) e attualmente esposta nel Museo nazionale Romano. Vi si parla del giovane servo Marco, deceduto all’età di diciotto anni, nove mesi, cinque giorni: Alexander | Augg(ustorum duorum) ser(vus) fecit | se bivo. Marco filio | dulcisimo caputa|africesi, qui deputa| batur inter bestito|res, qui vixit annis | XVIII, mensibu VIIII | diebu V. peto a bobis, | fratres boni per | unum deum ne quis | un titelo moles[tet] | pos(t) mor[tem meam] (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, X, 27126).

l dedicante della sepoltura e committente della iscrizione è Alessandro – padre del defunto – servo della domus imperiale severiana (nello specifico di Settimio Severo e Caracalla). Il giovane Marco fu colto da morte mentre si stava addestrando all’officio di vestitor (inter bestitores reca l’iscrizione) nella scuola dei paggi destinati alla domus imperiale ubicata nella regio II (il monte Celio) lungo il vicus Capitis Africae (attuale via Capo d’Africa), donde l’attributo caputafricensis rivolto a Marco.

Ma al di là di queste informazioni, l’aspetto notevole che emerge in questa iscrizione si concentra negli ultimi quattro righi, nei quali entra in scena lo stesso defunto, che si rivolge ai confratelli di fede parlando in prima persona: “vi chiedo, buoni fratelli in nome dell’unico Dio, che nessuno danneggi questa tomba dopo la mia morte”. Se si considera che questa iscrizione non era “protetta” nel chiuso di un esclusivo cimitero dei cristiani – per esempio una catacomba – ma si trovava, pienamente visibile, in una area sepolcrale “mista” all’aperto cielo dove convivevano nel sonno della morte pagani e cristiani, l’appello ai fratres boni e l’integrata professione per unum deum acquisiscono nella loro complementarietà notevolissima rilevanza. Qui emerge con il massimo dell’evidenza un tratto identitario specifico, quello appunto della fraternità cristiana, esibito a tutte lettere e senza ambiguità alcuna alla collettività dei superstiti – pagani o cristiani che fossero – e veicolato da una famiglia, cristiana, appartenente allo strato infimo della piramide sociale romana: Marco e il padre Alessandro erano servi.

Di diversa estrazione culturale e di un cinquantennio posteriore è un altro testimone epigrafico, da ritenere allo stato attuale come il più antico elogio funerario latino prodotto dalla comunità cristiana di Roma: è ancora certamente anteriore all’età costantiniana come indica il suo ritrovamento in una delle zone più antiche del cimitero di Priscilla. Si tratta di un lungo componimento in esametri e anche qui – nella parte finale dell’elogio – prende la parola il defunto, la giovane quattordicenne Agape, definita Christi fidelis dai genitori Pius e Eucharis (Inscr. Christ., IX, 25962): Eucharis est mater, Pius et pater [mihi – – -].| Vos precor, o fratres, orare huc quando veni[tis] | et precibus totis patrem natumque rogatis, |9 sit vestrae mentis Agapes carae meminisse,| ut deus omnipotens Agapen in saecula servet (“Eucharis è mia madre, Pio mio padre. Vi chiedo, fratelli, quando venite qui per pregare e in tutte le vostre preghiere invocate il Padre e il Figlio, ricordatevi della cara Agape, affinché Dio Onnipotente conservi Agape in eterno”). Il richiamo ai fratres non riguarda qui la protezione del sepolcro, ma si proietta nella celebrazione del dies natalis di Agape (il giorno della nascita alla nuova vita), quando i “fratelli” davanti alla sua sepoltura (huc quando venitis) tutti insieme innalzeranno una preghiera comune (precibus totis) in suffragio della “sorella”. Quasi rarefatto nella sua essenziale semplicità espressiva è un’altra iscrizione della catacomba di Priscilla, non posteriore alla metà del III secolo, in cui collettivamente i fratelli rivolgono a Leonzio l’ultimo saluto: “Leonzio, pace dai fratelli. Addio” (Inscr. Christ., IX, 25319).

A Roma nel III secolo i seguaci di Gesù non si autodefinivano con l’aggettivo – potremmo dire tecnico – Christianus, che almeno in Occidente comincierà lentamente a diffondersi a partire da Costantino, ma guardando all’essenza di un annuncio rivelatosi nella storia, si qualificavano come figli di un unico Dio Padre tra loro uguali, appunto come “fratelli” e “sorelle”. Due termini che a Roma, già dal II secolo, erano stati duramente stigmatizzati come scandalosi e, come tali, avevano suscitato infamanti maldicenze.

È celebre il giudizio che circolava tra i pagani, riportato da Minucio Felice – che soggiornò a lungo a Roma – nel suo immaginario dialogo Octavius (8, 2): “Si riconoscono fra loro con segni e distintivi segreti e si amano di reciproco affetto praticamente prima di conoscersi: ovunque tra loro serpeggia una sorta di religione del piacere e senza distinzione si chiamano fratelli e sorelle”.

Circa un secolo dopo una coerente risposta alla critica distruttiva di parte pagana si legge in una misurata pagina di Lattanzio, dove viene evocata l’istanza ideale di una società cristiana, nel cui ambito tutti i seguaci di Gesù si chiamavano tra loro “fratello” e “sorella”: “non esiste altra ragione se ci chiamiamo fratelli se non perché ci consideriamo tutti uguali (…): schiavi e liberi, grandi e piccoli sono uguali tra loro (…) e si davanti a Dio si distinguono solo per virtù” (Divinae institutiones, 5, 15).

Sullo sfondo di questa riflessione – è ben chiaro – si legge in filigrana una tradizione secolare, che trovava la sua pietra miliare in Paolo e nel Luca degli Atti degli apostoli.

Marco e Alessandro, Agape Pio Eucharis, Leonzio – i fedeli incontrati nelle nostre iscrizioni sopra ricordate – appartenevano alla generazione che aveva visto nascere, a partire dal 258, la memoria apostolorum sulla via Appia.

Qui, nel corso di circa un cinquantennio, migliaia di fedeli si erano recati per invocare – sempre congiuntamente – Pietro e Paolo, come indicano in maniera inoppugnabile gli oltre seicento graffiti che tuttora si possono leggere sulle pareti intonacate della triclia, un cortile porticato.

Un luogo di incontro in cui fraternamente si consumava un banchetto (il refrigerium) in onore dei due Apostoli e si tracciava a sgraffio la memoria scritta – e dunque consapevolmente indelebile – di un atto devozionale compiuto, di una richiesta di aiuto e di protezione: Petre et Paulo petite pro Victor (“Pietro e Paolo Intercedete per Vittore”); Petre et Paule in mente habetote Urbium et Zitum (“Pietro e Paolo ricordatevi di Urbio e Zita”); Petre et Paule beati martyres nos conservate in Domino (“Pietro e Paolo martiri beati conservateci nel Signore”) (Inscr. Christ. 12989, 12992, 12996). È il segno inoppugnabile della costruzione di una identità, nel caso specifico tutta romana.

 dal sito web: www.vatican.va/

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