11 maggio. Da: I Quaderni del 1944 di Maria Valtorta

11 maggio 1944. [1]

Dice Gesù:

«Vieni. Esci per un poco dalla tua carcere. Metti la tua mano nella mia mano. Io ti voglio condurre con Me. Il calore della mia ferita scalderà il gelo della tua mano e più ti scalderà il cuore.

Sai come si fanno gli innesti? In due modi. L’uno, radicale, è quando di una pianta selvatica si vuole fare una pianta buona. Allora si amputa totalmente la chioma e sui poveri monconi che restano, aperti e – se le piante avessero voce – gementi di dolore, si incastrano, negli spacchi, i polloni d’innesto. Poi si lega e si attende. La linfa dell’albero buono si mescola a quella della pianta selvatica, e se in essa vi è capacità di fusione e di attrazione la linfa benefica prende dominio e vince. L’albero diviene buono e fruttifero.

Vi è poi la perfezione ottenuta dagli esperti per fare di due piante buone una superqualità nuova e buonissima. Allora non si amputa brutalmente la pianta. Non ve ne è più bisogno poiché è già buona. Si avvicinano soltanto le due piante buone, si scortica uno o più rami di quella che si vuol fecondare con questo connubio vegetale, e contro alla scorticatura – ferita che duole e brucia ma che darà gloria all’albero – si accostano, ben stretti, altri rami, quelli della pianta fecondatrice, e si legano di modo che le gemme della seconda si saldino sulla ferita della prima e ne vengano rami che alle virtù originarie uniscano le virtù innestate.

Maria, il Battesimo, e i Sacramenti in genere, sono l’innesto totale che sulla mala pianta dell’uomo, macchiato dalla colpa d’origine, innestano la Grazia e ve la mantengono per successivi innesti, poiché la pianta-uomo è di sua natura respingente gli effetti della Grazia, del divino innesto.

Non sempre, anzi raramente, il mio Sangue, la mia Carne, il mio Martirio e il Fuoco Paraclito possono di voi, selvatici, fare delle piante di celeste frutto. Manca in voi volontà di divenirlo. Ma in coloro che hanno tale volontà – ed essa è la nota predominante del loro canto d’amore – l’Amore pratica un altro innesto. Ed è quello della fusione con Me. Io allora prendo per mano e la cicatrice, non mai completamente guarita, della mia mano versa i suoi ardori e i suoi germi nel vostro essere e vi marca a fuoco indelebile.

Non occorre esser capitozzati come per il primo innesto. La Grazia è già in voi. Ma occorre esser lacerati dal Dolore, mio Araldo; per potere ricevere, con immediata vitalità, il benefico mio contatto. E quanto più grande è la ferita che vi lede e tanto più posto vi è perché Io vi appoggi le mie Ferite. Se siete tutti una ferita, se da capo a piedi non siete che lacerazione e dolore, ecco che allora Io vi stringo a Me, ad ogni Ferita mia corrisponde una vostra e come per una spirituale trasfusione il Sangue passa da Me, ferito, a voi, feriti. La sofferenza è atroce. Lo so. Ma la reazione è sublime.

Io sono adagiato su te, Maria. Tu non te ne accorgi. Non te ne puoi accorgere perché sei morente di dolore. Io, dall’ora sesta all’ora di nona, non vedevo neppur più la Madre mia… Il dolore mi rendeva capace solo di sentire il dolore. Cielo, sole, folla, e urla e gemiti e fischi di vento, tutto annullato nel dolore atroce della finale agonia, della Redenzione. Sapevo che mia Madre era ai piedi della croce. Ma più che le tenebre sempre più fitte me la nascondeva il dolore. Dolore di suppliziato e dolore di abbandonato da Dio. E Io soltanto so quanto avrei voluto vederla per trovare un conforto in tale desolazione!…

Ma Io ora ti prendo per mano e ti dico: “Scendi dalla tua croce e vieni con Me, fuori delle tenebre, per un poco d’ora. Ti voglio parlare di un punto che uno, a Me e a te caro, ha desiderato, e sul cui argomento non ho parlato prima perché lo serbavo ad ora”.

Dice il mio Pietro: “… Il diavolo, vostro avversario, come leone ruggente vi gira intorno cercando chi divorare; resistetegli forti nella fede, sapendo che i vostri fratelli dispersi nel mondo soffrono gli stessi vostri patimenti”.[2]

Nelle contrade africane dove abita il leone sanno, uomini e bestie, come regolarsi con esso. Una volta ti ho portato meco in oriente presso una fonte ricca d’acque… e ti ho detto: “Sii come questa”.[3] Oggi ti porto con Me nelle eterne foreste i cui giganti arborei sono i pronipoti di quelli emersi dal nulla per volere del Padre e che mirarono gli occhi attoniti dei primi padri. Così vedrai qualcosa di diverso da quanto ti immelanconisce.

Guarda. Alte contro al cielo, di un azzurro più scuro dei miei stessi occhi, stanno le cime di questi millenari giganti verdi. E si intrecciano le une alle altre per parlare lassù, ai venti e alle stelle, delle sottostanti vicende che esse non vedono poiché il tetto verde le cela.

Sotto è il sottobosco, folto come un labirinto, intricato di liane e di radiche che paiono serpenti, e ornato dei traditori monili che sono le serpi in agguato. Più basso ancora, la felpa dell’erba folta, nata in un vergine terreno ricco di mille succhi e nella quale è dolce trovare pascolo e riposo per antilopi e gazzelle e cibo ai milioni di uccelli di ogni canto e colore. Fiori, felci, collane di corolle, antri verdi, grotte muscose e freschi corsi d’acqua e una luce verde, riposante in mezzo al sole che abbacina là dove penetra, nelle strade aperte a fatica dall’uomo o lungo uno specchio d’acqua tanto vasto da obbligare la volta vegetale ad aprirsi in pozzo verde.

In queste foreste è re il leone. Nessun altro gli tiene fronte fra ciò che corre o balza, o striscia o arrampica, o vola o cammina. L’uomo che passa coi suoi armenti ai margini della foresta, migrante verso zone di pascolo o di mercato, costruisce, per sé e per i suoi simili, recinti pontuti per chiudervi la mandra nelle notti fredde e serene. Gli animali si rintanano nel folto o si rannicchiano in alto delle piante come cala la sera per sfuggire al suo assalto. Perché il leone non assale finché il sole è nel cielo. Attende la notte, l’ombra ingannevole della luna, o la tenebra fonda, per la sua preda. Esce e rugge, come viene la sera. Rugge intorno alle chiusure dell’uomo e intorno agli antri delle bestie. Non penetra, attende. Attende l’imprudente che esce dal suo rifugio.

Quante imprudenze sempre! Desiderio di sollievo, curiosità di vedere, fretta di giungere. Il leone è là. Attende, pregustando il sapore della preda, battendosi i fianchi per l’impazienza e per l’ira della lunga attesa, e gira cercando il punto da cui uscirà l’imprudente, e quando lo trova si mette alla posta, oppure studia i segni dell’abituale andare e va all’agguato. E tace, ora, poiché sa che l’imprudente viene. Tace per far credere che non c’è più. E non c’è mai tanto come quando tace.

Maria, il diavolo fa come il leone. Gira, approfittandosi della caduta del Sole, intorno alle vostre anime. Non osa uscire e assalire sinché il Sole è alto sul vostro spirito. Rugge, ma non assale. E che importa se rugge? Lascialo ruggire di rabbia. Sta’ sotto al Sole, al tuo Dio, e non aver paura. Non vedi più il Sole? Ma Egli c’è. Se un’ora di prova ti fa cieca, sappilo sentire per il suo calore, posto che non puoi vederne l’aspetto. Non sai che moriresti di gelo se il tuo Sole fosse morto per te? Se vive il tuo spirito, nonostante Dio l’abbia reso cieco, è perché il Sole ti bacia ancora.

Oh! se le anime sapessero rimanere sempre sotto al Sole eterno, e anche nelle tenebre della prova non uscire dallo zenit solare e dire: “io resto al mio posto. Qui, dove mi ha lasciata, Dio mi ritroverà perché io non muto il mio pensiero di fede e d’amore”!

Il diavolo gira cercando il varco per allungare la zampa unghiuta e strappare l’incauto che sta troppo vicino all’apertura: alla tentazione. Oppure attende che esca: volontaria preda per allettamento di senso. Oppure anche tace e si mette in agguato, è l’insidia più astuta. E chi procede senza collegamento col divino cade nella sua trappola.

Lo ripeto: sinché rugge è poco pericoloso; quando, dopo essersi fatto sentire, tace, allora è pericoloso al sommo: tace perché ha scoperto il vostro punto debole e le vostre abitudini ed è già pronto al balzo su voi.

Siate vigilanti. Se su voi è la luce di Dio, essa vi illumina e altro non occorre. Ma se siete nelle tenebre, state ancorati alla fede. Nulla e per nessun motivo vi faccia smuovere da essa. Tutto pare morto e annullato? Dite a voi stessi: “No. Tutto è come prima”. Dite a Satana: “No. Tutto è come prima”.

Prima di voi, quanti hanno subito le vostre stesse torture! “i vostri fratelli dispersi nel mondo”. I vostri fratelli. Nel mondo. Mondo, qui, non è tanto questa Terra, che voi abitate, coi suoi viventi. Mondo è la Comunione di tutti i viventi. “Di tutti i viventi” dico. Ossia di tutti quelli che sono nella Vita in eterno dopo aver voluto e saputo rimanere nella “Vita” mentre erano sulla Terra.

Ebbene, questi vostri fratelli sparsi come fiori eterni nei miei paradisiaci giardini, non solo ricordano i loro passati combattimenti, e perciò sanno comprendere i vostri. Ma, per la Carità che ormai è la loro Vita, essi soffrono, nella beatitudine, di vedervi soffrire. Sofferenza d’amore che non ottunde la loro gioia, ma che vi mescola una vena di superattiva carità e che li fa pietosi e soccorrevoli ai vostri affanni. Tutto il Cielo sta proteso su voi che lottate col mio Nome nel cuore e per il mio Nome; e vi aiuta.

Non uscite fuor dalla triplice barriera delle teologali virtù, dalla sicura difesa delle quadruplici virtù cardinali. La fede, la speranza e la carità. La giustizia, la temperanza, la fortezza e la prudenza, ecco le vostre difese. Contro esse si spezzano le unghie di Satana ed esso perde il rigore senza nuocervi.

Quando torna il Sole, il vostro Dio, a splendere ai vostri animi vittoriosi della notte che vi ha torturato, voi rimanete stupiti nel vedere quanta opera di liberazione ha fatto lo stesso demonio, contro la sua stessa volontà, girando furente intorno a voi. Nella sua furia impotente, mettendovi sulle difese, ha fatto sì che le piccole imperfezioni, come erbe leggere troppo calpestate, muoiano definitivamente, e sul suolo, nudo, scenda trionfante la luce a far crescere più forte il vostro fiore, lo spirito vostro, creato per vivere in Cielo.

Va’ in pace. Torna, con pace, sulla tua croce e nella tua tenebra.[4] E porta con te questo ricordo di sole. Va’. Credi in Me e in mia Madre anche se in queste ore, che sono fra la sesta e la nona, non ci puoi vedere perché il dolore ti acceca.»


[1] La scrittrice fa precedere, aggiungendola a matita, la seguente citazione biblica: S. Pietro, I epistola, c. 5 v. 8.

[2] 1 Pietro 5, 8-9

[3] Il 2l giugno 1943, ne «i quaderni del 1943»

[4] Si riferisce al terribile stato di abbandono, che la scrittrice stava provando fin dal 9 aprile

 

 
Precedente Sulla comunione ai risposati, una lettera dal Bangladesh Successivo 16 maggio. Da: I Quaderni del 1944 di Maria Valtorta