Ancora sulla tomba di S. Pietro e il libro di Bruno Bartoloni: “Le orecchie del Vaticano”.

a cura di Giovanna Busolini

 

Giovedì 12 luglio 2012 è uscito in libreria un altro volume che si interessa della Tomba di S. Pietro: “Le orecchie del Vaticano” di Bruno Bartoloni (Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012). In questo libro sono stati raccolti decenni di storie pubbliche e riservate accadute all’ombra del Cupolone.

L’osservatore Romano – che ne ha dato notizia a tempo debito – ne pubblicava alcuni stralci che vi riporto perché riguardano proprio alcune notizie relative alla tomba di S. Pietro.

Noi valtortiani sappiamo che nella Basilica del Vaticano non c’è in realtà la Tomba del Principe degli Apostoli perché da precisi e decisi dettati di Gesù alla mistica, veniva categoricamente smentita questa ipotesi.

In fondo all’articolo troverete questi dettati e l’ultima descrizione di Maria Valtorta che poté vedere più volte i resti incorrotti di S. Pietro e anche l’ultimo loculo dove fu nascosto, nonché un’esortazione dello stesso S. Pietro a tutta l’umanità.


di Bruno Bartoloni

Per una singolare circostanza, proprio in quegli anni bui della seconda guerra mondiale, mentre le tombe di soldati, civili, ebrei, zingari, omosessuali si moltiplicavano a milioni, si tornò a scavare là dove un altro ebreo convertito, San Pietro, era stato sepolto diciannove secoli prima, nel 67, dopo aver subito il martirio della croce a testa in giù, in assenza di Nerone che si trovava in viaggio di piacere in Grecia.

Proprio una morte fu la singolare circostanza che dette il via alle ricerche: la morte di Pio XI il 10 febbraio del 1939. Prima di quel fatidico anno che segnò l’inizio della guerra, sotto la basilica si era andati a guardare poco e male. Nessun pontefice aveva mai permesso di fare ricerche precise, anche perché una tradizione ultra millenaria, testimoniata da documenti misteriosi e apocalittici, minacciava le più gravi sciagure per chi avesse turbato la pace del sepolcro di Pietro. Agli inizi del XVI secolo, nell’eseguire le fondazioni per una delle quattro colonne tortili della Confessione di Gian Lorenzo Bernini, era venuto alla luce un sepolcro. Vi era stata trovata, fra l’altro, una stupenda statua di bronzo che il cardinale Maffeo Barberini si era fatto trasferire in bella vista nel suo palazzo di via Quattro Fontane nel cuore di Roma. Sul sarcofago del suo sepolcro, un certo Flavio Agricola, liberto bon vivant della nobile famiglia dei Flavi, aveva fatto scolpire alcuni versi che invitavano alle libagioni e all’amore. I prelati del tempo, inorriditi e scandalizzati, almeno a parole, avevano subito fatto scalpellare il marmo e sotterrato ogni cosa.

Insomma ogni tanto qualcuno ci aveva messo il naso ma sempre di corsa e in modo dilettantesco. Il primo che andò a guardare un po’ più sul serio fu nella metà del XIX secolo il pioniere dell’archeologia sacra, Giovan Battista de Rossi, il geniale ricercatore che scoprì le catacombe di San Callisto. Quando Pio IX gli chiese se aveva trovato la tomba di Pietro, gli rispose: «Sono tutti sogni, Padre Santo, tutti sogni!».

Ci volle dunque il testamento di Pio XI, il quale chiese di essere sepolto nelle Grotte Vaticane in una zona che aveva indicato al canonico tedesco Ludovico Kaas, segretario della Veneranda Fabbrica di San Pietro, l’organismo che da sempre presiede agli interminabili e mai finiti lavori nella basilica. A Roma si dice «come la Fabbrica di San Pietro» quando si parla di un’impresa che non finisce mai.

Fu ai primi colpi di piccone che i «sampietrini», gli operai della basilica, si accorsero di abbattere un muro vuoto. Da quel momento inizia la storia della tomba di Pietro, la cui ricerca coincide con gli anni più drammatici del XX secolo. Una storia lunga e polemica che mio padre seguì fin dal nascere lasciando a me il compito di vederne la fine, salvo nuove puntate.

Fu nel maggio del 1942 che Pio XII annunciò che nel corso degli scavi sotto la basilica vaticana era stato trovato un monumento che poteva essere identificato con la tomba di San Pietro. Papa Pacelli ne dette poi la conferma solenne nel 1950, in occasione dell’Anno Santo.

Nonostante la guerra, l’annuncio del 1942 sollevò molte polemiche, soprattutto fra gli storici protestanti. Insieme al loro collega più categorico, il francese Charles Guignebert, sostenevano che il martirio di San Pietro a Roma era un avvenimento leggendario e che lo stesso san Paolo nella sua lettera ai Romani non accenna mai alla presenza di Pietro nella capitale dell’impero.

Gli scavi durati dieci anni misero fine a ogni dubbio. Furono lavori difficili e delicati, perché per non correre il rischio tutt’altro che teorico di far crollare la basilica fu addirittura necessario fare delle iniezioni di cemento armato sotto i pilastri di sostegno, che gli architetti del Rinascimento avevano appoggiato su terra compressa ma senza raggiungere una profondità sufficiente. Sotto uno dei quattro pilastri, quello che corrisponde alla Loggia della Veronica, furono messi in opera in quei mesi del 1942 ben quattromila mattoni. La cupola, secondo calcoli eseguiti sotto Benedetto XIV dal gesuita slavo Boscovich e dai francescani francesi Leleur e Jacquier, pesa cinquantasei milioni duecentoottomilaottocentotrentasette chili e quattrocentosessanta grammi e cominciò a far temere per la sua stabilità fin dall’anno 1636 a causa di una crepa.

Per dieci anni monsignor Kaas, il gesuita archeologo tedesco Engelbert Kirschbaum e il suo confratello italiano, Antonio Ferrua, insieme con un gruppo di tecnici e di sampietrini avanzarono centimetro per centimetro a dieci metri di profondità con i piedi nell’acqua.

Scoprirono poco a poco i resti di una gigantesca città cimiteriale appoggiata al circo di Nerone.

Ritrovarono all’ingresso di un sepolcreto, sullo stipite della porta, il testamento marmoreo di un certo Popilio Heracle il quale imponeva ai suoi eredi di costruirgli un monumento in Vaticano ad Circum.

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