Nosiglia: «Francesco ha sgretolato i pregiudizi sulla Chiesa»

28/12/2013

Mons. Nosiglia tra i giovani

MONS. NOSIGLIA TRA I GIOVANI

Intervista con l’Arcivescovo di Torino: «Il Papa è entrato nei cuori di tutti». «Anche la Chiesa italiana è chiamata ad accogliere fino in fondo le indicazioni del Pontefice»

DOMENICO AGASSO JR
TORINO

Spesso va alle mense per i poveri a distribuire il cibo di persona, «perché, come insegna papa Francesco, l’esempio possa trascinare altri  a farlo». Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino dal 2010 e presidente della Conferenza episcopale piemontese, ha posto i bisognosi, gli emarginati, gli "ultimi" al centro della sua opera di Pastore (oggi per esempio si reca in due campi rom). Dunque la sintonia con le parole e i gesti del Pontefice è piena ed è stata immediata. 
Vatican Insider lo ha intervistato alla vigilia di un biennio in cui la sua Arcidiocesi accoglierà e organizzerà tre avvenimenti internazionali: la Città del Vaticano ospite d’onore al Salone del Libro 2014, l’Ostensione della Sindone e il bicentenario di san Giovanni Bosco nel 2015. Oltre alla possibile visita di Francesco.

Eccellenza, in che cosa papa Francesco è stato particolarmente incisivo in questi suoi primi nove mesi di pontificato?
«Innanzitutto nella testimonianza. Ha offerto da subito una testimonianza di fatti, non solo di parole. La scelta di stare a Santa Marta, quella di iniziare a rinnovare collegialmente la curia, di andare a Lampedusa, di avvicinare le persone. I fatti concreti con cui si presenta colpiscono molto la gente. E quello che dice è efficace perché va direttamente al cuore e dentro i problemi, senza girarci attorno, e con grande forza invita la Chiesa come anche tutte le componenti sociali a uscire da certi schemi ormai logori. Parla di Chiesa delle periferie, di Chiesa povera per i poveri. Dà delle indicazioni concrete, però le dà innanzitutto col suo esempio. Questa è la cosa che penetra, che “buca”, perché questo esempio di semplicità, di essenzialità, di coerenza evangelica, porta gioia solo a vederlo, ad ascoltarlo».

Qual è la Sua percezione sul gradimento delle persone per il Pontefice e sulla partecipazione alla Messa e ai Sacramenti?
«Io conosco persone che non sono credenti, che avevano sulla Chiesa tante idee critiche, e che adesso non si perdono un Angelus la domenica. Non sono solo quelli che sono lì a San Pietro che sono aumentati enormemente, ma c’è una platea grandissima di gente che la domenica cerca in ogni modo di ascoltare il Papa, perché l’appuntamento con Francesco è diventato una questione di speranza, di fiducia. Il Papa è entrato nei cuori di tutta quanta la popolazione, dagli anziani, ai giovani, ai bambini. Io vado spesso a parlare nelle scuole pubbliche, e mi capita di raccontare la mia storia, di dire che sono stato a Roma e per tredici anni vicino a papa Giovanni Paolo II, poi mi fermo e chiedo: “Ragazzi, come si chiama oggi il Papa?”. Si alza subito un grido forte e un applauso scrosciante al nome di Francesco. Gli altri anni quando andavo, attaccavano la Chiesa, sempre. Ora invece non c’è più la tipica domanda sulla Chiesa troppo ricca e potente: fanno altre domande più orientate al Vangelo e alla vita. Una Chiesa con un Papa povero, umile, semplice, ha scombussolato questi pregiudizi, li ha sgretolati. Ogni domenica prima della Messa, nella visita pastorale, celebro il sacramento della Riconciliazione e vengono persone che mi dicono che sono decine e decine di anni che non si confessano e hanno deciso di ritornare a farlo perché hanno sentito il Papa che ha detto che Dio perdona sempre e tutti, ma che siamo noi che non gli chiediamo perdono. Una frase così ha determinato vere conversioni. Il Signore si sta servendo di papa Francesco per dare un messaggio di speranza al suo popolo, vicini e lontani, ma accomunati dalla stessa storia così tormentata e difficile del nostro oggi».

Lei come Francesco ha messo al centro della sua opera di Pastore i poveri e la carità: quale deve essere il “posto” della carità per i cristiani del terzo millennio?
«La carità non è solo dare dei servizi ma è donare se stessi, guardare in faccia le persone negli occhi, e cercare di capire quali sono i loro drammi, le loro difficoltà, farsi poveri coi poveri, stabilire delle relazioni che diano la possibilità di conoscere la vera realtà delle persone. Si parla dei rom, dei rifugiati, delle famiglie senza lavoro o senza dimora, dei malati e per questo abbiamo la Caritas, la San Vincenzo, il Sermig, la comunità di San Egidio, la Migrantes…: ma il vescovo cosa deve fare? Deve andare a trovarli per ascoltarli, per vederli in faccia, per capire le loro storie, i drammi concreti che stanno vivendo, e poi deve dare degli esempi. Se dico alle comunità cristiane di dare una stanza per accogliere uno senza dimora di notte, io per primo devo attrezzare la mia casa per questo tipo di accoglienza e di relazione con queste persone perché, come insegna papa Francesco, l’esempio possa trascinare altri a farlo. Questo vale per ogni cristiano, che deve guardarsi attorno e vedere quali segni concreti, quali fatti d’amore può compiere per il suo prossimo. Perché altrimenti è difficile vincere l’individualismo che c’è dentro di noi. Per cui o deleghi delle persone a fare quello che potresti fare tu, oppure dici “non ho tempo, ti do i soldi, perché tu faccia”. No, dice il Vangelo: coinvolgiti tu in prima persona, quel poco che puoi fare lo devi fare tu; quindi una carità che diventa anche condivisione, relazione, vicinato, segno di gratuità che tu esprimi attraverso quello che è il tuo impegno verso il tuo prossimo. In questi giorni ho detto di avere un sogno che può tradursi in gesto concreto: in Torino, la città dei Santi sociali e della Provvidenza, si giunga a chiudere almeno a Natale le mense e gli alloggi notturni perché tante famiglie e comunità accolgano qualcuno di questi poveri che ne usufruiscono e diano loro il calore di una famiglia. Se facciamo crescere questa rete capillare di prossimità, allora i servizi che sono pure necessari diventeranno espressione di una comunità cristiana in cui ciascuna persona e  famiglia superano la delega e offrono il loro contributo. Perché la carità non è un optional, è un comando del Signore rivolto a tutti i suoi discepoli. Ma c’è di più. Penso che evangelizzare i poveri significhi anche e soprattutto annunciare il Vangelo della gioia, dell’amore, che diventa gesto concreto. Ma dobbiamo annunciarlo il Vangelo. È quello che dico sempre agli operatori della carità: siete degli evangelizzatori, non dovete aver paura di annunciare Gesù Cristo, di dire che ciò che fate lo fate per amore del Signore. Mi ricordo in Africa un’esperienza bellissima: una giovane donna, durante la preghiera dei fedeli ha detto: “Ringrazio i missionari che son venuti qui da noi, in Camerun, perché ci hanno portato…”, io pensavo l’ambulatorio medico, la chiesa, la scuola, no: ha detto “ci hanno portato la Parola di Dio che ci ha dato la forza di risorgere, di vivere una vita nuova, che ci ha rimesso in piedi”. Aveva capito che ciò che i missionari avevano portato di più prezioso, oltre a tutti gli aiuti sociali fondamentali, era soprattutto il Vangelo».

Lei è presidente del comitato preparatorio del V “Convegno Ecclesiale” italiano (9 – 13 novembre 2015): alla luce di quello che sta compiendo Francesco, com’è la situazione della Chiesa italiana?
«Anche noi siamo chiamati a fare il nostro esame di coscienza, la nostra revisione, ad accogliere fino in fondo le sue indicazioni. Questo secondo me è positivo perché stimola a uscire da un certo “tran tran” della nostra realtà ecclesiale: si andava avanti perché è ovvio, la Chiesa è forte nel nostro Paese. Adesso abbiamo nuove motivazioni, nuovi stimoli e dobbiamo ringraziare il Signore perché stiamo rinnovandoci tutti, dai vescovi ai sacerdoti e diaconi, ai consacrati, ai laici, alle associazioni e movimenti. La nostra Chiesa è chiamata a realizzare un discernimento, per scoprire e accogliere qual è oggi la volontà di Dio, per rendere la sua presenza nel nostro Paese capace di dare segni forti di rinnovamento spirituale ed evangelico. Il prossimo Convegno di Firenze ha come tema “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”: già il Concilio Vaticano II affermava che “chi segue Cristo si fa lui pure più uomo”. Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo accolto nella fede, vissuta con coerenza nella carità, rinnova profondamente l’uomo, la famiglia, la società. E questo tema è molto incisivo e fecondo anche per l’intera società e segnerà il cammino della Chiesa italiana alla luce di quello che papa Francesco ci ha comunicato nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”. Anche il rinnovamento della Curia Romana che lui porta avanti è uno stimolo forte per rinnovare i nostri organismi pastorali, valorizzare meglio la responsabilità delle Conferenze episcopali regionali e lo stesso statuto della Conferenza episcopale, così da rendere la sua azione più incisiva nella evangelizzazione e nella testimonianza, più attivamente partecipata da tutti e più essenziale e semplice anche nella sua organizzazione. La spinta per tutto ciò ci è venuta direttamente dal Papa, col suo esempio, la sua testimonianza, il suo invito. È un momento bello, produttivo di grazia e di comunione, direi anche affascinante, per gli orizzonti nuovi che lascia intravvedere. Certo esige senso di responsabilità da parte di tutte le componenti ecclesiali».

Nei prossimi due anni Torino sarà “al centro del mondo”, soprattutto ecclesiastico: nel 2014 il Salone internazionale del Libro avrà come Paese ospite d’onore la Città del Vaticano; nel 2015 è in programma l’Ostensione della Sindone e il bicentenario di san Giovanni Bosco; ed è possibile una visita del Papa. Quali sono i suoi pensieri e speranze per questo biennio?
«Avere il Vaticano al Salone del Libro sarà una cosa molto bella e significativa. Il fatto che la Chiesa si misuri sotto il profilo della cultura con componenti laiche è nello stile di andare verso chi è fuori, stabilire un dialogo con chiunque, come fa papa Francesco, senza paure. Poi avremo l’anno intenso del 2015, con il 200° anniversario di San Giovanni Bosco, durante il quale i temi saranno giovani, lavoro, scuola, famiglia. Don Bosco ha sempre una presenza forte nella nostra terra, è considerato un punto di luce per il Piemonte, ecco perché si è pensato di collegare l’Ostensione con questa ricorrenza: abbiamo inoltrato la proposta al Papa, che l’ha accolta. Noi vogliamo che questa Ostensione abbia un carattere fortemente spirituale, di vera e autentica evangelizzazione. Intendiamo fare in modo che i pellegrini che vengono sia per don Bosco sia per la Sindone facciano un’esperienza intensa di preghiera e di comunione: cureremo molto il sacramento della penitenza, le celebrazioni, l’incontro con la Sindone, affinché diventi una contemplazione del mistero di Cristo e non semplicemente una visione affrettata. E poi cercheremo di vivere questa Ostensione nel modo più sobrio ed essenziale possibile, senza nulla togliere alla accoglienza fraterna e gioiosa dei pellegrini. E ovviamente ci auguriamo che venga anche papa Francesco: la sua presenza segnerebbe il momento più bello e importante delle celebrazioni».

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